"La cultura della complessità come cultura della responsabilità": la lectio magistralis di Dominici

"La cultura della complessità come cultura della responsabilità": la lectio magistralis di Dominici

"La cultura della complessità come cultura della responsabilità"

.. la "società ipercomplessa", .. le opportunità e i rischi, le traiettorie e le discontinuità .. che porta con sé. "

"Allo stato attuale delle cose posso dire che ci troviamo gettati nell'ipercomplessità, incapaci di riconoscerla e di tramutarla in un'opportunità per tutti.

Credo che l'idea di realizzare una società della conoscenza realmente aperta e inclusiva possa essere la vera utopia dell'epoca contemporanea".

Con queste parole Piero Dominici, autore e studioso difficile a una prima lettura, conclude un'intervista in cui ogni frase, ogni concetto, ogni risposta, evoca qualcosa dei suoi sentimenti personali e, allo stesso tempo, racconta e racchiude lunghi anni di ricerche sociologiche e filosofiche incentrate sulla teoria dei sistemi e sulla complessità.

In quest'intervista gentilmente concessa ad HuffPost, Piero Dominici - professore di Comunicazione Pubblica all'università di Perugia, formatore professionista e membro dell'Albo dei Revisori MIUR - cerca di spiegare con un linguaggio il più accessibile possibile quella che lui stesso ha definito

la "società ipercomplessa", con tutte le opportunità e i rischi, le traiettorie e le discontinuità che essa porta con sé.

Opportunità e/o rischi (questione di conoscenza e di "sapere condiviso") di cui non esita a rintracciare la stretta, strettissima, correlazione, da un lato, con un'innovazione tecnologica e digitale che, senza puntare decisamente su educazione, istruzione, formazione e ricerca, è destinata a rimanere una straordinaria opportunità per pochi.

I rischi, in tal senso, sono quelli di un'innovazione tecnologica senza cultura e di una cittadinanza senza cittadini, basata fondamentalmente su una "simulazione della partecipazione".

Dall'altro, rischi e/o opportunità devono "fare i conti" con il ruolo sempre più predominante e strategico assunto dalla comunicazione.

Opportunità e rischi che si riflettono direttamente su concetti e categorie sociali, politiche ed etiche come

-la cittadinanza,

-la partecipazione,

-la democrazia,

-l'innovazione,

-la libertà e

-*la responsabilità*.

"La società interconnessa – scrive nell'incipit del suo saggio Dentro la società interconnessa - è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l'elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali;

un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione).

La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma, creando le condizioni strutturali per l'interdipendenza (e l'efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione.

In altre parole, la Rete crea un nuovo ecosistema della comunicazione ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche.

* La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia, al di là dei tanti interessi in gioco." *

Se l'ipercomplessità è la vera sfida dell'epoca attuale, per Dominici è impensabile poter vincere questa sfida senza riconoscere e attribuire un ruolo chiave alla scuola, all'istruzione ed all'educazione.

Dal 5 al 7 maggio Tarquinia ospiterà l'apertura dell'ottava edizione del Festival della Complessitàdal titolo "In che mondo viviamo?", al quale lei parteciperà con una lectio magistralis sabato 6 maggio.

Una manifestazione che può essere letta da un lato come il tentativo di continuare a diffondere, anno dopo anno, i germi della complessità nell'opinione pubblica, coinvolgendo scuole, associazioni, movimenti ed enti locali;

dall'altro, come lo sforzo di combattere e scongiurare il rischio che temi come la complessità possano essere ridotti a semplici slogan e subire, come lei stesso ha denunciato più volte, un'opera di banalizzazione all'interno del discorso pubblico.

Sì, lei ha colto in pieno lo spirito del Festival e mi convince molto anche questa metafora marxiana dei germi, legata all'urgenza di cominciare a seminare, puntando sulla viralità più autentica della comunicazione: in questo senso, la scelta del Festival di coinvolgere le scuole è una scelta davvero importante perché è da lì che bisogna ripartire, comprendendo il valore assoluto dell'istruzione, dell'educazione e della formazione.

Le sfide della ipercomplessità sono sfide che riguardano da vicino le istituzioni educative e formative e che chiamano in causa direttamente l'educazione e la centralità strategica dei processi educativi.

Manifestazioni come il Festival della Complessità hanno il merito di contribuire al cambiamento dei "climi di opinione" - concetto molto importante, proposto da Elisabeth Noelle-Neumann – e il semplice fatto che oggi tutti parlino di complessità, al di là dell'inevitabile rischio di una banalizzazione, rappresenta comunque di per sé un elemento positivo: significa che, pur lentamente, sta cambiando in qualche modo l'attenzione e la sensibilità delle opinioni pubbliche.

Tuttavia, affinché la complessità non diventi l'ennesimo tema alla moda, è fondamentale che tali questioni e soprattutto questi approcci entrino nelle scuole, vengano praticati e non soltanto teorizzati.

E si può fare!

Non è inutile ribadire che, soltanto a questo livello di azione, possiamo provare a costruire le condizioni sociali e culturali del cambiamento e di un'innovazione che, nel lungo periodo, sia realmente inclusiva.

Temi e questioni che affronterò nella mia conversazione e che incrociano e intercettano anche la possibilità di costruire una cultura della responsabilità e della prevenzione.

A livello di discorso pubblico, qual è il rischio maggiore che corre la complessità rispetto a questo processo di banalizzazione?

Sicuramente il rischio maggiore è quello che la complessità si riduca allo slogan "tutto è complessità" e venga presentata come la soluzione di tutti i problemi.

In realtà, non è così: la complessità non è la soluzione ai problemi - ammesso che esistano soluzioni ai problemi, che, in ogni caso, hanno sempre un carattere provvisorio -, ma è un approccio, un metodo, un'epistemologia necessaria per affrontare i problemi, i dilemmi, le questioni riguardanti sistemi dinamici (complessi) che i tradizionali modelli lineari non riescono a definire, interpretare, comprendere.

Un metodo che si basa, in primo luogo - ma specifico non soltanto -, su una visione sistemica dei processi, dei fenomeni e delle dinamiche:

visione sistemica che comporta un modo completamente differente di guardare gli "oggetti".

Per questo noi dovremmo ripartire dall'educare e dal formare le persone, prima, e i cittadini, poi, a vedere, osservare e interpretare gli "oggetti" come "sistemi" e non viceversa.

Tale questione è centrale perché ancora oggi nelle scuole e nelle università continuiamo a insegnare, educare, addestrare, i nostri giovani a una pratica che è quella di ridurre, circoscrivere, individuare - sulla base di modelli lineari che non funzionano più - dei nessi di causalità - talvolta perfino banalizzando (il confine tra semplificazione e banalizzazione è molto sottile) - che in realtà, molto spesso, non sono nemmeno tali; anzi, nella migliore delle ipotesi, si tratta soltanto di correlazioni.

Il problema è che non sappiamo più osservare la globalità, l'intero, il complesso (ben diverso dal "complicato"), l'insieme di relazioni e interazioni che li caratterizzano.

Eppure, per affrontare la società dell'ipercomplessità, dobbiamo essere in grado di farlo, lavorando anche – come dissi anni fa - per ricomporre la frattura tra l'umano e il tecnologico.

È importante capire che il valore aggiunto conoscitivo dell'approccio alla complessità risiede proprio nella possibilità di cogliere i livelli di connessione e le relazioni sistemiche tra i fenomeni, tra le parti, tra questi e gli ecosistemi, a loro volta interconnessi.

Come può essere pensata e definita questa complessità?

Innanzitutto bisogna essere consapevoli della natura complessa e ambivalente della stessa complessità:

una complessità che è cognitiva, soggettiva, sociale ed etica.

Una complessità che è caratteristica peculiare dei sistemi e che può essere intesa in molteplici modi:

-come reciprocità di insiemi e molteplicità;

-come nuovo paradigma formativo ed educativo;

-come epistemologia dell'interdipendenza per la società ipercomplessa e interconnessa;

-come riflessione sulla complessità stessa;

-come approccio e organizzazione delle esperienze e dei saperi;

-come pluralismo di principi, visioni e valori;

-come valorizzazione dell'eterogeneità;

-infine, come urgenza di un approccio interdisciplinare e multidisciplinare.

A che cosa si riferisce quando parla di "sistema complesso"?

Per "sistema complesso" si intende un sistema costituito da molteplici elementi e variabili, a loro volta caratterizzati da legami (non facilmente riconoscibili) e complessi processi di retroazione.

Siamo di fronte a individui che retroagiscono (non soltanto in termini di feedback positivo o negativo), ad interazioni (complesse) tra sistemi e parti di sistemi, a processi di adattamento continuo agli stimoli interni ed esterni;

e il comportamento dei singoli o delle parti condiziona l'intero sistema.

Pertanto, il solo parlare di "sistemi complessi" ci costringe a considerare, ogni volta, numerose variabili, concause e parametri, e ad essere consapevoli della rilevanza di dimensioni come l'incertezza, l'indeterminatezza, l'ambivalenza che contraddistingue tutti questi "oggetti di studio".

Ambiti e territori di una ipercomplessità che non ci permette di sottovalutare anche i livelli linguistico-comunicativi e interpretativi prodotti su di essa;

livelli divenuti, nel frattempo, sempre più strategici e che richiedono lessico e codici adeguati e pertinenti.

In altri termini,

l'osservazione (talvolta, partecipante e partecipata, come nel caso dei sistemi sociali e organizzativi),

l'interazione, il confronto si verificano con individui, elementi, parti, a loro volta caratterizzati da legami (non facilmente riconoscibili a educazione e formazione) e complessi processi di retroazione, che non è possibile osservare isolandoli e/o separandoli tra loro e rispetto al contesto di riferimento.

Le parti, che costituiscono i sistemi complessi, sono sempre strettamente interdipendenti, ma non è mai così semplice individuarne i legami e le correlazioni.

Questo perché siamo quasi sempre di fronte a dinamiche instabili, che rendono inefficace qualsiasi spiegazione deterministica e riduzionistica.

Una (iper)complessità forse ancor più accresciuta nel caso dell'osservazione e dell'analisi dei sistemi sociali e delle organizzazioni complesse:

si tratta di sistemi complessi adattivi caratterizzati, oltre che da connessioni non lineari e da una notevole varietà di elementi e connessioni, da processi e dinamiche che si evolvono per differenziazione non lineare e/o, a certi livelli di complessità, per autopoiesi:

questo aumento di complessità genera nuove esigenze comunicative che, a loro volta, definiscono nuovi bisogni organizzativi.

Di conseguenza, la capacità di elaborare e condividere informazioni è fondamentale per l'adattamento all'ambiente e gli eventuali tentativi di trasformarlo, a tutti i livelli della vita: biologica, organizzativa, sociale.

La società attuale come una "società ipercomplessa": mi potrebbe spiegare questo passaggio dalla complessità all'ipercomplessità?

Le società, i sistemi sociali e le organizzazioni, fin dalle loro origini, sono sempre state complesse.

Il passaggio dalla complessità all'ipercomplessità è stato innescato e, insieme, radicalizzato da un insieme di variabili e fattori, tra i quali due particolarmente importanti:

l'innovazione tecnologica, con le improvvise accelerazioni indotte dalla cd. rivoluzione digitale, e

la comunicazione che ha definitivamente assunto un ruolo sempre più strategico e predominante.

Per quanto riguarda l'innovazione tecnologica: l'avvento del digitale ha introdotto una sorta di "nuova velocità", un'accelerazione dei processi, che rende sempre più complicata la gestione degli stessi, oltre a lasciare poco spazio per la riflessione, l'analisi critica, la responsabilità nelle decisioni.

Questioni di natura non soltanto "tecnica".

Ma sia chiaro: l'innovazione tecnologica ha sempre prodotto accelerazioni improvvise, quello che possiamo senz'altro affermare è che il digitale ne ha radicalizzato gli effetti, rendendo ancor più evidenti le nostre inadeguatezze.

Di fatto, in altre parole, questa "nuova velocità" del digitale contribuisce a rafforzare la narrazione, ma anche la percezione e la credenza diffusa, di una "doppia velocità" di tecnologia e cultura, come se la tecnica e le tecnologie fossero un qualcosa di esterno alla cultura e ai contesti storico-culturali che le hanno prodotte e sviluppate.

L'altro fattore – dicevo - è rappresentato dal ruolo sempre più centrale della comunicazione, che ho definito (1996) come

"processo sociale di condivisione della conoscenza".

Considerando fondata l'equazione conoscenza = potere, ne consegue che tutti i processi, le dinamiche e gli strumenti finalizzati alla condivisione della conoscenza non potranno che determinare una condivisione del potere o, comunque, una riconfigurazione dei sistemi di potere e delle gerarchie all'interno delle organizzazioni (nel lungo periodo).

In questa prospettiva, come ribadito più volte, il nuovo ecosistema sociale e comunicativo (1996) apre interessanti prospettive a processi di democratizzazione del sapere ed è destinato ad accrescere le possibilità di accesso alle informazioni e di elaborazione della conoscenza; ma, affinché ciò avvenga, è necessario che si facciano seriamente i conti non tanto con

* il "digital divide" (che, con ogni probabilità, sarà risolto nel tempo) – questione evidentemente importante – quanto con

* il "cultural divide"(Dominici, 1998 e sgg.): si tratta di un discorso di vitale importanza – e non solo per la governance di Internet e del nuovo ecosistema.

Per dirla anche con Morin, occorre una riforma complessiva del pensiero e (nello specifico) dell'insegnamento.

Oggi tutti (apparentemente) sostengono tali posizioni, ma se analizzaste le azioni correttive e le strategie definite, vi accorgereste che si tratta di etichette o keywords che devono essere inserite nei documenti per altri motivi.

Allo stesso tempo, quasi a voler ribadire ancora una volta il carattere ambiguo e l'ambivalenza del complesso mutamento in atto – che, come ogni processo sociale e culturale, contiene i famosi "germi della sua contraddizione"- non possiamo non rilevare come,

parallelamente alla definizione ed al sorgere di queste nuove opportunità di accesso alle informazioni e di elaborazione della conoscenza (per ora riservate quasi esclusivamente a élite e gruppi d'interesse ristretti),

proprio quelle stesse caratteristiche e dinamiche che rendono la società interconnessa un'opportunità e che fanno apparire le architetture del nuovo ecosistema "aperte" (ma le reti che lo costituiscono sono "chiuse", da sempre...provate a diffondere contenuti in gruppi che non vi "riconoscono" — riconoscimento – identità),

pongono alla nostra attenzione una serie di questioni problematiche che riguardano da vicino,

non solo la veridicità, l'attendibilità e la qualità delle informazioni e delle conoscenze disponibili on line,

ma anche, e soprattutto, quella che potremmo definire la "reputazione" dei saperi e dello stesso sapere scientifico

Funzione cruciale - parla di "ruolo strategico" - alla scuola e all'istruzione nell'affrontare le sfide poste dalla società ipercomplessa.

Sì, sono convinto che la sfida educativa sia la sfida più importante:

in primo luogo perché le regole di ingaggio della cittadinanza - ormai da tempo e ancora di più oggi nella cosiddetta società della conoscenza - non sono più scritte e definite dai legislatori, ma vengono scritte e definite nei luoghi in cui si produce informazione, conoscenza e sapere.

Quali sono questi luoghi?

La scuola e l'università, prima di ogni altro fattore.

È solo a scuola e, in un'ottica di lungo periodo, all'interno dei processi educativi, che si possono creare le condizioni socioculturali che rendano possibile l'affermarsi di

una cultura della

*responsabilità, della

*legalità, della

*prevenzione e, perché no, dell'

*empatia e del

*rispetto;

così come è solo a scuola e nel lungo periodo che si possono creare

le condizioni socio-culturali per poter concretamente ripensare

la cittadinanza,

l'inclusione,

il confronto interculturale,

il contratto sociale.

Per affrontare le sfide dell'ipercomplessità è, dunque, necessario realizzare un *cambiamento di natura culturale* che ponga al centro

-le Persone,

-l'insegnamento,

-l'istruzione e

-l'educazione.

Un cambiamento che coinvolge molte variabili e che può avvenire solo attraverso l'adozione di politiche di lungo periodo;

un cambiamento che è quanto mai urgente in

un Paese, come il nostro, che è da sempre storicamente legato a logiche e strategie di breve periodo, che sono quelle dell'emergenza, della sorveglianza e del controllo.

L'Italia, in tal senso, si è dimostrata molto abile - a livello operativo e culturale - nel gestire le emergenze, ma, allo stesso tempo, continua ad apparire del tutto incapace di costruire una

*cultura della complessità

che non può che basarsi su un

*cultura della responsabilità.

I processi di innovazione e cambiamento camminano sulle gambe delle Persone e, per questo motivo, sono convinto che tutti i processi e i progetti di innovazione debbano avere al centro l'educazione e l'istruzione: è da lì che si deve partire.

È la scuola che, fin dai primi anni di vita, dovrebbe educare al metodo scientifico, alla complessità, al pensiero critico, al pensiero sistemico.

E – come già accennato - affinché ciò avvenga, è necessaria una riforma complessiva del pensiero e, nello specifico, dell'insegnamento, basata anche sul rilancio in grande stile degli studi umanistici e sul superamento di quelle che, in passato, ho chiamato le "false dicotomie".

Prima di parlare delle "false dicotomie", vorrei approfondire la questione relativa alla "necessità di una riforma complessiva" del pensiero e all'urgenza di un "cambio di paradigma" di cui lei parla nei suoi studi.

Stiamo attraversando una fase di mutamento globale, estremamente delicata:

la civiltà ipertecnologica fa sì che l'evoluzione culturale – che include anche la tecnica e le tecnologie – sia in grado di condizionare, come mai è avvenuto in passato, l'evoluzione biologica.

Pensiamo, per esempio, alle scoperte importantissime nel campo della manipolazione genetica, della robotica, dell'intelligenza artificiale: l'essere umano è (sembra?) ormai in grado di determinare lo svolgersi degli eventi, perfino l'inizio e la fine di una vita, in ogni caso modificandone in profondità ogni suo aspetto.

Quindi la tematica del cambio di paradigma non è un semplice slogan ad effetto, ma un'urgenza forte, dato che siamo costretti a ripensare gli stessi concetti, le definizioni operative che inquadrano i concetti, le categorie.

Dal punto di vista dei modelli teorici siamo costretti a ripensare un po' tutto: al di là delle tradizionali distinzioni tra naturale e artificiale, tra naturale e culturale, siamo costretti ad interrogarci, per esempio, su

*cosa sia la vita,

*in cosa consista la coscienza;

*cosa significhi essere, oggi, Persone e/o Cittadini.

La crisi dell'epoca attuale, dal punto di vista dei saperi e della produzione intellettuale, rappresenta un momento di transizione estremamente problematico che ci vede in grande difficoltà e che si sostanzia in una

*crisi che è soprattutto culturale e di civiltà, e

*soltanto in parte economica.

Nell'affrontare tale crisi, siamo in affanno anche perché ci siamo concentrati unicamente sui

*metodi e sugli strumenti di rilevazione,

non considerando minimamente l'importanza e il valore strategico della

*teoria e dei *modelli teorico-interpretativi che,

inevitabilmente, devono supportarci sia nella prassi quotidiana che nell'*osservazione "scientifica" dei fenomeni.

Di fronte a un'evoluzione culturale che condiziona quella biologica, appare quanto mai urgente *superare la dicotomia natura/cultura e, allo stesso tempo, emerge con forza la domanda di un *approccio sistemico alla complessità, che valorizzi le questioni cruciali dell'*interdisciplinarità e della *multidisciplinarità:

una necessità dettata dall'impossibilità di continuare a tenere le cd. due culture (umanistica e scientifica) e i due "campi" evolutivi separati.

Lei ha appena parlato della necessità di superare la dicotomia natura/cultura, potrebbe definire meglio questa questione delle "false dicotomie".

Da molti anni ormai sostengo l'urgenza di superare quelle che ho chiamato le "false dicotomie". Non possiamo non rilevare come la tecnologia sia entrata a far parte della sintesi di nuovi valori e di nuovi criteri di giudizio e, allo stesso tempo, abbia determinato un aumento della possibilità di potere e anche di potenza, con nuove implicazioni legate ai poteri della tecnica. Pensiamo, per esempio, alla tradizionale separazione tra formazione scientifica e formazione umanistica, tra materie umanistiche e materie scientifiche: una separazione che, oltretutto, non ha più senso, dato che i "confini" tra i due ambiti sono completamente saltati.

In questa prospettiva di analisi, emerge chiaramente come, anche quella tra complessità e specializzazione dei saperi, sia una falsa dicotomia: l'iperspecializzazione dei saperi è un processo evolutivo inevitabile e perfino auspicabile, il problema è che questi saperi non dialogano e non comunicano in alcun modo. È tuttora diffusa l'idea che la complessità e l'interdisciplinarietà siano incompatibili, addirittura ostacolino, la specializzazione dei saperi.

Così come non ha alcun senso tenere distinte teoria e pratica/ricerca, dato che si alimentano a vicenda, da sempre. Purtroppo, queste "false dicotomie" resistono e continuano a produrre effetti anche nell'ambito delle logiche e delle culture che caratterizzano le organizzazioni complesse, laddove p.e. tutta l'attenzione viene posta esclusivamente sulla questione delle competenze e sull'importanza del "saper fare".

Nella società ipercomplessa, al contrario, non sono più sufficienti il "sapere" o il "saper fare": dobbiamo "sapere", dobbiamo "saper fare", ma dobbiamo anche "saper comunicare il sapere" e "saper comunicare il saper fare". Non è inutile ribadirlo: occorre essere consapevoli che il futuro è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l'umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali.

Andando oltre quelle che, in tempi non sospetti, avevo definito le «false dicotomie»: teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills (proprio in questa prospettiva si vedano, in particolare, "Quadro europeo delle qualifiche per l'apprendimento permanente – EQF" – vedi distinzione tra "conoscenze", "abilità" e "competenze"; cfr. anche i Descrittori di Dublino).

La tematica delle "false dicotomie" richiama da vicino un'altra questione da lei sollevata: la necessità di "ricomporre la frattura tra l'umano e il tecnologico", che tra l'altro si collega alla credenza diffusa - di cui ha parlato prima - di una "doppia velocità" di tecnologia e cultura.

La cosiddetta società ipertecnologica porta con sé una serie di illusioni, le quali possono essere ricondotte all'idea che noi saremo sempre più in grado - e sempre di più lo faremo - di delegare le nostre scelte e - aggiungo io - la nostra responsabilità a sistemi e dispositivi tecnologici: in altre parole, la dimensione del tecnologicamente controllato continuerà ad aumentare e, con essa, continuerà a diffondersi l'illusione che il fattore umano, sociale e relazionale siano sempre meno importanti, perché nel frattempo avremo delegato le decisioni, le scelte alle tecnologie, agli algoritmi o ai robot.

Ci stiamo sempre più convincendo che il digitale e le tecnologie possano risolvere tutto, possano preservarci da ogni pericolo, e ignoriamo un aspetto importante: il fattore umano è (e sarà) sempre decisivo dal momento che è dietro ogni processo, dietro ogni meccanismo, dietro ogni algoritmo. Ma mi ripeto: di fronte alle sfide dell'ipercomplessità, non possiamo che registrare la sostanziale inadeguatezza delle architetture che caratterizzano i nostri saperi e, con essi, la nostra scuola e la nostra università.

Questa tematica è così centrale perché ogni processo di innovazione tecnologica e di cambiamento determinerà sempre elementi di stress e vulnerabilità nei sistemi; se non proviamo a correggere le "false dicotomie" e la sostanziale inadeguatezza degli attuali processi educativi e didattico-formativi (oltre alle questioni riguardanti la governance di scuola e università), tra vent'anni saremo ancora qui a parlare di come la tecnologia acceleri e di come la cultura non riesca a starle dietro. In una condizione critica di perenne "ritardo culturale". Come si può tentare, allora, di contrastare questa ritardo culturale, apparentemente strutturale? Continuo ad esserne convinto, da sempre: solo lavorando sull'educazione, sui processi educativi e superando le "false dicotomie". Una questione anche, e soprattutto, di potere.

Per concludere, vorrei toccare un'ultima tematica da lei trattata e che può essere riassunta in quella che lei definisce "la società asimmetrica".

Riprendendo la mia definizione di società interconnessa, ritengo che siamo di fronte a un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponda ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione e inclusione; laddove, per comunicazione intendo un processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (riduzione asimmetrie).

Partendo dal presupposto che se non mettiamo mano all'educazione non andremo da nessuna parte, a mio avviso - proprio nel momento in cui tutti parlano di società della comunicazione e di condivisione della conoscenza (o di sharing economy) –questo sistema globale, in realtà, si sta sempre più strutturando sul principio di esclusività e non su quello di inclusività. La stessa Rete – almeno per ora, ma io penso per molto tempo ancora, anche quando si sarà risolto il problema deldigital divide – resta e resterà una straordinaria opportunità per le élites e per gruppi appartenenti a particolari saperi esperti. Nel quadro, peraltro, di un ecosistema globale del controllo e della sorveglianza.

Tutto ciò tocca da vicino il tema della partecipazione e della cittadinanza.
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m.huffingtonpost.it/2017/05/04/a…l_a_22069135/

m.huffingtonpost.it/2017/05/04/al-festival-de...