Votare: un verbo da coniugare al futuro

" Votare: un verbo da coniugare al futuro "
di Giuseppe RIGGIO SJ
(Fascicolo: agosto-settembre 2022)

Tra le poche certezze della politica italiana vi era una regola di buon senso non scritta, legata al calendario dei lavori parlamentari: «Non si vota in autunno» per salvaguardare i tempi necessari per la discussione e l’approvazione della legge di bilancio. Ma anche questa sorta di tabù politico – insieme a quello di dedicare il mese di agosto al riposo e alle feste di partito e non a un’incandescente campagna elettorale – è stato travolto dal modo in cui si è aperta e svolta la crisi politica che ha segnato la fine del Governo Draghi. Così, per la prima volta nella storia repubblicana, ci recheremo alle urne per eleggere il nuovo Parlamento il 25 settembre, esprimendo attraverso il voto la nostra indicazione su quale progetto politico riteniamo più adatto per il nostro Paese e a quale classe dirigente ne affidiamo la guida per i prossimi cinque anni.

Si tratta di una scelta importante e non facile da compiere, per questo può essere di aiuto richiamare alla memoria gli eventi dell’ultimo periodo, non tanto per farne una puntuale ricostruzione quanto per cogliere alcune questioni di fondo presenti nella nostra politica che finiscono con rallentare il nostro Paese. Allo stesso tempo, è essenziale allargare lo sguardo oltre alla contingenza presente, mettendoci in ascolto di ciò che riteniamo essenziale per il futuro.

Una legislatura accidentata

Nell’arco di pochi giorni, nel caldo eccezionale del mese di luglio, si è dissolta la maggioranza di “unità nazionale” che sosteneva l’Esecutivo guidato da Mario Draghi dal febbraio 2021, nato a seguito di un’altra indecifrabile crisi della nostra politica e chiamato a realizzare due compiti fondamentali, entrambi legati alla pandemia da COVID-19: la gestione della campagna nazionale di vaccinazione e l’adozione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) per ricevere i fondi europei destinati alla ripresa delle economie prostrate dalla pandemia. Sul piano politico si è trattato dell’epilogo, per molti versi surreale, di una legislatura decisamente accidentata fin dai suoi primi passi.

Nel corso di questi anni abbiamo assistito all’alternarsi di tre compagini governative tra loro molto diverse per visione politica e stile di azione (dal Governo Conte 1, composto dal M5S e dalla Lega e nato dopo lunghe settimane di incerte trattative, al Conte 2 sostenuto dalla cosiddetta maggioranza giallorossa, fino all’Esecutivo guidato da Draghi), alla nascita di nuovi partiti frutto delle scissioni avvenute in seno a quelli più grandi, ai numerosi passaggi da un gruppo parlamentare a un altro (circa 340 nel corso dei quattro anni di legislatura). Sono varie le ragioni alla base di questi eventi, alcune legate a itinerari personali dei politici coinvolti, tuttavia c’è una spiegazione più di fondo: la composizione del Parlamento consegnataci dalle urne nel 2018 è lo specchio di un Paese frammentato e distante dalla vita politica, come testimoniavano l’emergere di tre poli politici di maggior peso, pur se di grandezza diversa (il centrodestra, il Movimento 5 Stelle e il centrosinistra), e l’elevato astensionismo (27%).

Nel momento in cui questo fascicolo di agosto-settembre va in tipografia, non sono ancora note tante informazioni importanti per formarsi una propria opinione a proposito del voto. In particolare, i partiti non hanno ancora definito i programmi elettorali e non hanno sciolto i dubbi sulle possibili alleanze (una questione rilevante soprattutto nell’area politica del centrosinistra), di conseguenza non hanno stilato neanche le liste elettorali, che permettono di conoscere i nomi dei candidati nei vari collegi. Tuttavia, come Aggiornamenti Sociali, seguiremo questi temi e la campagna elettorale attraverso i contributi che pubblicheremo sul nostro sito e i canali social.

A fronte di una situazione politica e sociale così segnata dal pluralismo di posizioni e di visioni, in cui non era possibile per nessuna forza politica da sola o nelle coalizioni tradizionali esprimere una maggioranza per governare il Paese, l’unica strada possibile da percorrere era quella della ricerca di un accordo tra partiti che si erano anche duramente combattuti negli anni precedenti.

Il miraggio del dialogo

Purtroppo la rilettura della parabola politica di questi ultimi anni, senza entrare nei singoli episodi per i limiti di spazio a disposizione, mostra che spesso le spinte autoreferenziali dei partiti hanno finito con esaurire velocemente la tenuta degli accordi di governo man mano siglati. Hanno prevalso le dinamiche interne nei partiti, le sfide per conservare o affermare la propria leadership da parte di alcuni politici, il condizionamento dettato dall’andamento dei sondaggi sulle decisioni da prendere, la preoccupazione di portare avanti le battaglie di bandiera anche a scapito di progetti più ampi. Due esempi mostrano con chiarezza la fatica del nostro mondo politico a saper dialogare tanto al suo interno quanto con la società civile.

Da un lato, possiamo ricordare il susseguirsi di eventi che hanno portato alla rielezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica, nonostante avesse manifestato in modo chiaro la sua indisponibilità per un secondo mandato. La sua conferma al Quirinale è stata salutata dalla stragrande maggioranza dei cittadini e dei commentatori come un fatto positivo, una garanzia per l’intero Paese, e gli eventi recenti non fanno altro che confermare questa valutazione. Tuttavia, resta il dato che la sua rielezione non è stata il frutto di una scelta politica ben precisa, ma l’esito di una impasse scaturita dall’incapacità dei partiti di confrontarsi per cercare una soluzione condivisa, avendo come riferimento ultimo proprio il bene del Paese più che i calcoli politici di parte.

Dall’altro, proprio in occasione della crisi del Governo Draghi, abbiamo assistito a un’ampia mobilitazione della società civile a sostegno del proseguimento del suo mandato. Sono stati numerosi gli appelli, promossi da semplici cittadini o da rappresentanti delle istituzioni, tra cui oltre duemila sindaci di varia appartenenza politica, da diverse organizzazioni di categoria, dal mondo della scuola e dell’università, dal Terzo settore, dall’associazionismo e dalle realtà ecclesiali. Alla base dei vari interventi vi era la preoccupazione concreta che la conclusione dell’esperienza del Governo Draghi potesse avere conseguenze nefaste per il Paese in una situazione nazionale e internazionale critica, a causa del conflitto in Ucraina e delle sue ripercussioni sul piano economico, sociale e politico. L’invito rivolto alle forze politiche era di essere responsabili, di farsi carico delle fasce più deboli della popolazione, quelle più colpite ad esempio dal rincaro delle bollette e dall’aumento dell’inflazione, che sarebbero state più protette dal prosieguo dell’azione del Governo in carica che da una sua anticipata interruzione.

Ma così non è stato: gli appelli rivolti da più parti non hanno trovato ascolto e ora siamo chiamati a votare.

Pensando all’appuntamento del voto

Giungiamo così a una campagna elettorale che sarà inedita per il periodo dell’anno in cui si tiene, a cui i partiti giungono in buona parte in affanno, dovendo preparare i programmi, decidere le alleanze o definirne in modo più chiaro gli accordi, scegliere i propri candidati all’elezione di un Parlamento ridotto nel numero dei membri da 945 a 600, dopo l’approvazione della riforma costituzionale del 2020.

Fin dalle prime battute è apparso in modo chiaro che sarà una campagna altamente polarizzata, giocata su slogan (in alcuni casi anche vecchi e riciclati) e contrapposizioni schematiche, rissosa su alcuni grandi temi, che ritorneranno nelle proposte dei vari partiti, anche se con un ordine diverso di priorità e differenti soluzioni proposte: l’economia, il lavoro, la riforma fiscale, la sicurezza, il capitolo della giustizia, la politica estera (soprattutto le relazioni del nostro Paese con l’Unione Europea, le posizioni sulla guerra in Ucraina e, in particolare, i rapporti di alcuni partiti con la Russia), la crescita di diseguaglianze e povertà, le questioni legate all’ambiente, a cui siamo tutti (finalmente) più sensibili dopo il caldo eccezionale dell’estate e le tragedie in montagna per lo scioglimento dei ghiacciai.

Facile prevedere che a pagare il prezzo più alto di questa affannata campagna elettorale saranno proprio la qualità del dibattito politico e la possibilità di affrontare le questioni emerse negli ultimi anni a seguito dello shock pandemico e della guerra in Ucraina. Per questo è importante fare attenzione al linguaggio che viene usato o al ricorso in modo strumentale ai simboli religiosi. Si tratta in entrambi i casi di una cartina di tornasole di una certa visione della società e dei rapporti al suo interno: se le parole e le immagini utilizzate si basano sull’esclusione e sulla negazione di valori e diritti di parti della società, allora viene compromesso quell’impegno evocato in una dichiarazione dal card. Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, all’indomani della convocazione delle elezioni, per «ritrovare quello che unisce, per rafforzare il senso di una comunità di destino e la passione per rendere il nostro Paese e il mondo migliori».

A fronte di questo quadro e in vista del voto che dobbiamo esprimere, come cittadini ed elettori non fermiamoci a considerare in modo isolato le singole misure che vengono man mano presentate da parte dei leader politici, più o meno riuscite dal punto di vista comunicativo e spesso pensate per fare breccia nel mare di proposte, a volte prescindendo persino dalla loro effettiva sostenibilità nel tempo o dalla loro reale efficacia. Le questioni che abbiamo di fronte, anche nella loro novità, sono tra loro strettamente interconnesse, presentano una grande complessità e non possono essere affrontate in modo serio senza avere una visione di insieme, senza che vi sia un confronto approfondito con la realtà del Paese, con le sue potenzialità e vulnerabilità. L’adozione di questo approccio si traduce, ad esempio, nel conoscere e valorizzare la vitalità di tanti territori, anche periferici, e settori economici; nel riconoscere la drammaticità dei livelli di diseguaglianza e povertà che si sono raggiunti e agire per dare una risposta; nel prendere atto che il volto del nostro Paese è ben più multietnico di quanto viene solitamente detto, e questa è un’opportunità enorme se si smette di considerarlo un problema; nel riconoscere lo spreco di creatività e risorse che si consuma quando giovani e donne non trovano sufficiente spazio nel mondo del lavoro e nella società perché mancano politiche adeguate. Soprattutto questo approccio permette di vedere queste questioni come singole facce di un unico poliedro, che vanno considerate e pensate insieme.

Forse il recupero di questo senso della misura e della responsabilità potrà fare breccia su quei cittadini, stanchi o disillusi anche a causa delle recenti vicende, che si sono allontanati dalle questioni politiche, e che sembra abbiano già deciso di astenersi alle prossime elezioni, come testimonia l’hashtag #iononvoto lanciato su Twitter subito dopo le dimissioni di Draghi: sono un pezzo della nostra società che resta silenzioso nei canali istituzionali, ma non per questo non hanno idee e opinioni, bisogni che vanno tenuti in conto ed energie preziose da mettere a disposizione.

Capaci di guardare più lontano

Ma osiamo ancora di più. Chiediamo ai politici non solo di dirci come intendono gestire il presente, ma come immaginano il futuro. Chiediamo quale sogno hanno per il nostro Paese, così come è inteso da papa Francesco nei suoi documenti, ad esempio nell’enciclica Fratelli tutti, cioè come una visione capace di indicare una direzione di marcia e di motivare per realizzare un cambiamento profondo. Si tratta di cercare, al di là del contingente e delle urgenze, un orizzonte sensato e stimolante, che aiuti a costruire in una prospettiva di lungo termine.

Ma non fermiamoci solo a interrogare e valutare il comportamento della nostra classe dirigente, lamentandoci per ciò che non funziona. In vista del voto – e spingendo lo sguardo anche oltre – rivolgiamo a noi stessi questa domanda: quale sogno ho per l’Italia? Facciamolo anche a livello di istituzioni e di società civile, quelle stesse realtà che hanno levato la loro voce nella crisi del Governo Draghi non per difendere una posizione politica, ma per la preoccupazione nei confronti dei concittadini e del Paese. Questa esperienza di convergenza sulla base di una preoccupazione condivisa potrebbe tradursi nel primo passo per la nascita di un soggetto politico (non un partito), capace di esercitare una effettiva forza negoziale con le forze politiche. Mettiamoci in gioco davvero, in prima persona, senza delegare passivamente ad altri il nostro futuro.

Questi anni duri che abbiamo vissuto per via delle varie crisi che si sono succedute a livello sanitario, economico, sociale, ci hanno mostrato quanto forte e sano è il tessuto civile del nostro Paese, quante risorse esistono, quanto beneficio traiamo tutti da un servizio generoso che passa spesso inosservato e che fa leva sulla capacità di collaborare e di cui ciascuno può essere protagonista. Spingendo lo sguardo oltre l’immediato appuntamento elettorale, ci accorgeremo che abbiamo un bagaglio di competenze ed esperienze che può contagiare e rinnovare quanto di stantio ancora c’è nella nostra società e nella politica, che da improvvisato teatrino merita di tornare a essere la bussola del Paese.

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