Aggiornamento di stato

Aggiornamento di stato

La solidarietà sembra un valore dimenticato nella società dei consumi; un oblio rivelatore, visto che appare tanto più essenziale in un mondo come il nostro, in cui l’attenzione a se stessi e ai propri interessi assume forme patologiche. Come sottolinea papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, la solidarietà nasce e si alimenta dal sapersi responsabili delle fragilità gli uni degli altri.

Coltivarla richiede una conversione dello sguardo, prima che un atto di volontà: si tratta di nutrire un sincero sentimento di compassione nei confronti del prossimo e delle sue debolezze, che fa sentire corresponsabili del suo benessere, collaboratori della sua gioia (cfr 2Corinzi 1,24).
A fronte di una fatica diffusa a prendersi a cuore ciò che non intercetta il concreto interesse personale, l’enciclica invita ad avere il coraggio di incrociare lo sguardo del prossimo. Come insegna magistralmente l’episodio di Caino e Abele (cfr Genesi 4,6), il peccato si radica proprio in uno sguardo che non è più in grado di incontrare quello del fratello.


La solidarietà, intesa come attenzione nei confronti del prossimo e delle sue fragilità, si traduce in un effettivo e creativo prendersi cura.
Il Papa a questo proposito usa l’immagine suggestiva del “toccare la carne” del fratello (FT, n. 115), cioè entrare in contatto con la debolezza dell’altro, per essere provocati a farsene carico.
E questo senza alcuna deriva ideologica, perché la spinta che promuove la solidarietà non può essere di questa natura, ma deve sgorgare dall’interesse che si nutre per la persona in quanto tale. A sua volta, la solidarietà è capace di esprimersi in una pluralità di forme, secondo la creatività dello Spirito (cfr Atti degli apostoli 2,4). La grazia di Dio suscita e mette a frutto i carismi, individuando stili e iniziative sempre nuovi – espressione autentica dell’unico linguaggio della carità – che rendano la comunità un luogo dove si respira la pace di Dio.

Quest’ultima considerazione ci fa comprendere, infine, che vivere la solidarietà implica aiutare ciascuno a pensare e ad agire in termini comunitari, anteponendo al bene personale quello comune, alla luce di una reciproca interdipendenza. Su questo fronte la sapienza biblica ha ancora moltissimo da insegnare. A una società come quella moderna e occidentale, che ha riconosciuto al singolo un primato a tratti assoluto e incondizionato, il pensiero biblico, soprattutto nei testi più antichi, riafferma la centralità della comunità (familiare, tribale, nazionale). Non si tratta di una sottolineatura derubricabile a semplice sensibilità culturale, ma di una necessità stringente, maturata grazie alla consapevolezza che l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, è per la relazione; anzi, è relazione (cfr Genesi 1,27).

L’insegnamento del Siracide sull’elemosina
Come tutta la letteratura sapienziale, anche Ben Sira, ritenuto l’autore del Siracide, coltiva un atteggiamento che si può definire “realista” nei confronti dei beni materiali. Non intende screditare le ricchezze, ma metterne a fuoco la finalità sociale: i beni come strumento di solidarietà, atto a perseguire il bene della comunità. A questa tematica, attualissima e scottante, è dedicata la pericope di Siracide 3,30 – 4,6 (cfr il riquadro qui sotto), che parte da una considerazione più puntuale sulla pratica dell’elemosina, per allargare poi lo sguardo a quello stile improntato alla solidarietà – di cui l’elemosina è valida espressione – alla base del vivere comune.

Siracide 3,30 – 4,6


3,30 L’acqua spegne il fuoco che divampa, / l’elemosina espia i peccati. 31 Chi ricambia il bene provvede all’avvenire, / al tempo della caduta troverà sostegno. 4,1 Figlio, non rifiutare al povero il necessario per la vita, / non essere insensibile allo sguardo dei bisognosi. 2 Non rattristare chi ha fame, / non esasperare chi è in difficoltà. 3 Non turbare un cuore già esasperato, / non negare un dono al bisognoso. 4 Non respingere la supplica del povero, / non distogliere lo sguardo dall’indigente. 5 Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo, / non dare a lui l’occasione di maledirti, 6 perché se egli ti maledice nell’amarezza del cuore, / il suo creatore ne esaudirà la preghiera.

L’elemosina negli scritti sapienziali non va considerata come un’azione puntuale – una semplice offerta in denaro a una persona bisognosa – bensì come un atteggiamento complessivo di prudenza nella gestione dei propri beni e di cura nei confronti di chi si trova nell’indigenza. Essa permette a chi possiede dei beni di amministrarli in modo intelligente, valorizzandoli per quello che dovrebbero essere: uno strumento per fare del bene e non un fine! Sotto questo profilo è interessante anche il dato lessicale: in ebraico il termine con cui si indica l’elemosina è lo stesso di giustizia, cioè ṣedāqâ (cfr Siracide 7,10b; 12,3b; 16,14a; 40,24b; e anche 29,8b.12a; 35,4), con cui non si intende solo un concetto giuridico, ma anzitutto relazionale: la giustizia è la condizione di armonia fra i membri di una comunità. Il fatto che si usi questo termine per indicare l’elemosina implica che questo gesto ha come scopo ultimo il ristabilimento di tale condizione di armonia. La povertà è indice di sperequazione nel possesso delle risorse, e quindi di squilibrio nei rapporti fra i membri di una società; l’elemosina, come ogni atto di giustizia, persegue l’intento di ripristinare l’equilibrio relazionale perduto.




Nell’Israele post-esilico l’elemosina diviene uno dei tratti distintivi della pietas ebraica: una forma di culto spirituale, che va ad accostarsi a quello liturgico, se non proprio a sostituirlo, come nelle comunità della diaspora. Si veda a questo proposito il caso emblematico del libro di Tobia (4,7-11, nel riquadro qui sotto; cfr anche 14,10-11) e delle sue affermazioni sul tema. Anche Ben Sira raccomanda l’elemosina come forma di aiuto concreto nei confronti del prossimo, nella speranza fiduciosa che questo atto di carità porterà con sé benedizione (v. 31) e perdono da parte di Dio (v. 30).

Un gesto che nasce dal cuore
La questione decisiva, sulla quale Siracide torna con una certa insistenza, è che la carità non è fatta solo di gesti concreti (4,1a.3b; cfr Tobia 1,17; 4,16), ma di un’attenzione del cuore.

Tobia 4,7-11


7A tutti quelli che praticano la giustizia fa’ elemosina con i tuoi beni e, nel fare elemosina, il tuo occhio non abbia rimpianti. Non distogliere lo sguardo da ogni povero e Dio non distoglierà da te il suo. 8In proporzione a quanto possiedi fa’ elemosina, secondo le tue disponibilità; se hai poco, non esitare a fare elemosina secondo quel poco. 9Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, 10poiché l’elemosina libera dalla morte e impedisce di entrare nelle tenebre. 11Infatti, per tutti quelli che la compiono, l’elemosina è un dono prezioso davanti all’Altissimo.

Basta considerare i versetti iniziali del cap. 4 per constatare questo aspetto: non essere insensibile (v. 1b), non rattristare (v. 2a), non esasperare (v. 2b), non turbare (v. 3a). La carità fattiva nasce da una sincera compassione per l’altro; in caso contrario, la carità rischierebbe di essere un atto volontaristico, o – nel peggiore dei casi – ipocrita.

Nel v. 3 il maestro utilizza un immaginario piuttosto evocativo per l’israelita del suo tempo: quello delle viscere. Il testo ebraico potrebbe essere reso così: Non far fremere le viscere dell’oppresso / dell’uomo esasperato (v. 3a). Nella cultura biblica le viscere (in ebraico mēʻîm) sono considerate la sede dei sentimenti, delle emozioni più profonde, che anche in italiano definiamo “viscerali”. L’immagine è usata con frequenza, ad esempio, per indicare i sentimenti, tutti materni, che Dio prova nei confronti del proprio popolo, come dimostra questo passo di Geremia (31,20): «Non è un figlio carissimo per me Èfraim, / il mio bambino prediletto? / Ogni volta che lo minaccio, / me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui [le mie viscere fremono per lui] / e sento per lui profonda tenerezza». / Oracolo del Signore. Il greco ha mutato leggermente l’immaginario a fronte di una diversa antropologia (e di una diversa “localizzazione” dei sentimenti negli organi del corpo), per esprimere il medesimo concetto: Non turbare / non aggiungere ulteriore turbamento a un cuore già esasperato. La seconda parte del versetto, in cui si afferma la necessità di non negare al povero ciò di cui ha necessità, riprende invece con qualche adattamento un’esortazione di Proverbi 3,28: Non dire al tuo prossimo: / «Va’, ripassa, te lo darò domani», / se tu possiedi ciò che ti chiede.

Lo sfondo del v. 4, nel quale si invita il fedele a non mostrarsi indifferente di fronte alla supplica dell’indigente, sembra essere, invece, l’affermazione del Salmo 22,24-25 sull’atteggiamento corrispondente del Signore: Lodate il Signore, voi suoi fedeli, / gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, / lo tema tutta la discendenza d’Israele; / perché egli non ha disprezzato / né disdegnato l’afflizione del povero, / il proprio volto non gli ha nascosto / ma ha ascoltato il suo grido di aiuto. L’allusione al Salmo ci consentirebbe di riconoscere che per Ben Sira questa attenzione al povero e alle sue necessità è imitazione dello stile stesso di Dio. Proprio questa “logica mimetica” alla base dell’agire umano costituisce uno dei tratti distintivi della spiritualità dei libri sapienziali, Siracide compreso (che ritroviamo anche nel Nuovo Testamento: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste!», Matteo 5,48).

Da notare poi come sia nel v. 4 sia nel v. 5 si impieghi l’immagine del volto, dello sguardo per esprimere la predetta attenzione. L’importanza dello sguardo dipende dal fatto che da qui passa la relazione con il prossimo, nel bene e nel male; lo sguardo è mediazione della relazione con l’altro. Nel v. 4 si domanda, quindi, di non distogliere lo sguardo dall’indigente, e nel v. 5 di non distogliere lo sguardo da chi chiede. Ovviamente la carità non si riduce allo sguardo, ma da lì tutto ha inizio: uno sguardo compassionevole, capace di incrociare quello del fratello e di riconoscerne il bisogno, è punto di partenza di ogni atto di carità.

«Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi.»

Fratelli tutti, n. 116
L’israelita, infine, deve fare attenzione a non essere indifferente alla condizione del misero, perché ogni omissione sarà giudicata. I vv. 5b-6 si esprimono proprio a partire da questa convinzione. Il povero, al quale non è stata prestata alcuna cura, si rivolgerà al Signore, reclamando giustizia con forza (vv. 5b-6a), e il Signore, giusto giudice, non potrà che recepire tale istanza (v. 6b). Così sentenzia anche il libro dell’Esodo (22,21-22): Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido.

L’impiego del linguaggio di maledizione (vv. 5b-6a) per indicare la preghiera accorata rivolta dal povero nella sua amarezza a Dio sottolinea, da un lato, la disperazione da cui nasce questo grido di aiuto e, dall’altro, rimarca come l’omissione da parte del benestante sia da considerare atto di morte / che provoca morte, per se stesso e per gli altri. Maledire il prossimo significa, infatti, riconoscere che una grave azione di colpa porta con sé conseguenze drammatiche, mortali nelle relazioni comunitarie; questo vale per chi ne è vittima (in questo caso, il povero spinto verso la morte, perché non riceve aiuto nei suoi bisogni primari), ma anche per chi ne è l’artefice, perché il peccato – e in questo caso parliamo di un peccato di particolare serietà – porta sempre alla morte. Di fronte a questa corruzione seria delle relazioni comunitarie, Dio non può restarsene indifferente: ne va proprio del suo essere Dio e padre di questo popolo!

Per una società edificata sull’attenzione reciproca
Il profeta Michea nel terzo capitolo del suo libro presenta un’accusa durissima nei confronti di Gerusalemme e della sua classe dirigente, preludio e giustificazione della sua prossima rovina (Michea 3,9-12): la città santa viene definita costruita sul sangue e sull’ingiustizia (v. 10). Secondo la lettura del profeta, Gerusalemme è stata edificata sul disprezzo della vita altrui, nella ricerca esclusiva e senza limiti dell’interesse personale o di categoria. La città, che dovrebbe essere modello di santità, è divenuta modello di peccato e luogo di morte per mancanza strutturale di solidarietà fra i suoi membri!

È proprio per evitare una simile deriva che Ben Sira nelle sue esortazioni invita a non pensare anzitutto a se stessi, ma ad avere riguardo per il bene dell’intera comunità nella quale si è inseriti e dalla quale dipende anche il proprio benessere. Questa visione comunitaria, strutturale nella mentalità biblica, contrasta con quella prevalentemente individualista, che contraddistingue il nostro mondo; una visione “ego-centrica”, nel senso più vero e tragico della parola, che una frequentazione assidua e profonda della Parola dovrebbe aiutare a convertire. Raggiunti anche dalle esortazioni di papa Francesco, si tratta di capire fino a che punto siamo ancora capaci o meno di riconoscere le difficoltà del prossimo, passo preliminare e necessario per potersi interrogare su come porvi rimedio. Perché senza questa capacità previa di vedere il bisogno altrui, ogni desiderio di affrontarlo e risolverlo con le opportune risposte, per quanto ammirevole, è destinato a rimanere lettera morta!

Massimiliano SCANDROGLIO

Ti interessa continuare a leggere questo articolo? Se sei abbonato inserisci le tue credenziali oppure abbonati per sostenere Aggiornamenti Sociali

aggiornamentisociali.it/articoli/s…chi-soffre/