Siamo tutti razzisti

Siamo tutti razzisti

Siamo tutti razzisti
Giacomo COSTA

Fascicolo: maggio 2021

È passato un anno da quando, il 25 maggio 2020, a Minneapolis George Floyd, afroamericano, fu ucciso durante l’arresto da Derek Chauvin, poliziotto bianco, il cui processo è attualmente in corso nella città statunitense. La brutalità delle immagini subito pubblicate su Intenet e sui social media dai presenti, in cui si vede Floyd agonizzare sotto il ginocchio di Chauvin che lo soffoca, pronunciando ripetutamente le parole «I can’t breathe» («Non riesco a respirare»), suscitò una ondata di proteste nel Paese, complice anche la campagna presidenziale in corso, e in molte altre parti del mondo, coinvolgendo centinaia di migliaia di cittadini oltre a numerose stelle dello sport e dello spettacolo.



Comportamenti razzisti da parte della polizia non sono una novità negli Stati Uniti: lo slogan “Black Lives Matter” (“Le vite dei neri contano”) e il movimento che vi si riconosce muovono i primi passi nel 2013-2014, a seguito di episodi analoghi a quello di Minneapolis. La cronaca mostra che questi episodi non accennano a diminuire, con una recente impennata delle violenze contro i cittadini statunitensi di origine asiatica a partire dalla pandemia di COVID-19, che il presidente Trump chiamava il “virus cinese”.



La questione razziale continua dunque a ripresentarsi come un problema non risolto, negli Stati Uniti e più in generale in Occidente. È certo corretto stigmatizzare ogni violenza ingiustificata, da qualunque parte provenga, ma sarebbe semplicistico pensare che tutto si possa risolvere con la repressione di comportamenti individuali sbagliati. Come in altre situazioni analoghe, quali i casi di femminicidio, il ripetersi degli episodi è la spia di un problema strutturale più vasto e profondo, che va ben al di là dei singoli fatti, pur gravissimi. Affrontare la galassia del razzismo è una questione tanto urgente quanto complessa, innanzi tutto per le reazioni di resistenza che si scatenano appena si oltrepassa la soglia delle dichiarazioni di principio. In queste pagine proporremo alcuni stimoli, lasciandoci ispirare dalle riflessioni che la sociologa statunitense Robin DiAngelo trae da oltre vent’anni di attività di ricerca, consulenza, formazione sui temi della razza e delle ingiustizie sociali (cfr DiAngelo R., Fragilità bianca. Perché è così difficile per i bianchi parlare di razzismo, Chiarelettere, Milano 2020, ed. or. 2018). La storia degli Stati Uniti li rende un contesto particolarmente significativo rispetto a questo tema, ma non ne hanno certo l’esclusiva. Vale la pena mettersi in ascolto della loro esperienza anche per imparare a fare i conti con le difficoltà dell’Europa a riconoscere il proprio razzismo, spesso camuffato con la xenofobia o le questioni legate all’immigrazione.



Sono necessarie due ultime precisazioni. Innanzi tutto il discorso qui svolto è inevitabilmente situato, in quanto a farlo è un bianco che scrive per un pubblico in stragrande maggioranza bianco: può sembrare scontato, ma, come vedremo, è al cuore del problema. La seconda è che alcuni passaggi risulteranno scomodi e fastidiosi, a partire dall’uso del termine “bianco” o dal provocatorio titolo di questo Editoriale, perché sovvertono molti luoghi comuni dati per scontati. È una fatica che è necessario affrontare se si vuole davvero fare qualche passo in avanti.


Privilegio bianco?

A parte i membri di alcuni gruppi estremisti, nessuno si professa apertamente razzista; anzi, la gran parte delle persone dichiara con veemenza di non esserlo affatto, di avere amici (o membri della famiglia) di diverso colore e di avere imparato a non fare differenze. Queste almeno sono le reazioni tipiche di noi bianchi.

I dati invece parlano chiaro: negli Stati Uniti gli afroamericani hanno prospettive peggiori in quasi ogni ambito: reddito, disoccupazione, probabilità di ammalarsi di COVID-19 o di essere condannati a morte; pure di fronte allo stesso crimine, la sentenza è normalmente più severa quando l’imputato è nero e la vittima bianca. Anche la composizione della classe dirigente non rispecchia quella demografica, fatte salve alcune eccezioni: «L’identità di quanti siedono nelle stanze del potere in questo Paese è rimasta immutata: si tratta di bianchi, maschi, di ceto medio alto, senza disabilità fisiche» (DiAngelo). All’interno di una struttura sociale asimmetrica, c’è pertanto un gruppo che trae vantaggio dalla situazione e gode di un privilegio, cioè i bianchi. Come indica il titolo del volume di DiAngelo, questo è anche il gruppo che più resiste ad accettare che la discriminazione razziale è una realtà, a partire dalla consapevolezza di appartenere esso stesso a una razza, intesa ovviamente come costrutto socioculturale e non come dato biologico. Avere una identità razziale è la condizione di ogni essere umano. Tuttavia, parlare dei bianchi in termini razziali risulta poco comune e soprattutto sgradito agli stessi bianchi. Ancora più difficile è accettare la nozione di privilegio bianco: per chi ne gode da tutta la vita, in quanto bianco in una società dominata dai bianchi, sembra ovvio considerarlo un dato di fatto, una condizione normale. È difficile ritenere un privilegio il fatto di potersi spostare e magari anche attraversare una frontiera senza essere obbligati a mostrare i documenti alle forze dell’ordine, o poter affittare un appartamento od ottenere un prestito senza problemi.



Va sottolineato che si gode di questo privilegio esattamente in virtù della propria appartenenza razziale, a prescindere dalle convinzioni o dai comportamenti personali o dalla cittadinanza. Il fatto di considerarlo “scontato” trasforma i bianchi in difensori, più o meno consapevoli, dello status quo da cui i vantaggi derivano: se si nega l’esistenza del problema, si impedisce che possa emergere ed essere trattato.


Le “trappole” culturali

Rendersi invece conto che il razzismo è un problema strutturale, radicato nella cultura che ci precede e in cui tutti siamo inseriti, e non solo legato ad atti puntuali, è di grande importanza per poter davvero provare a smantellare il sistema. Al tempo stesso, affrontare gli schemi culturali da cui dipende può risultare complesso a causa di alcuni elementi caratteristici che la cultura occidentale ha assimilato e di cui non si rende più conto: l’individualismo, la presunzione dell’oggettività, e il conseguente approccio moralistico ai problemi.



Da una parte la prospettiva individualista crea, instilla, riproduce e rafforza la convinzione che ciascuno di noi è unico e distinto dagli altri, e che le appartenenze di gruppo, quali razza, ceto o genere, non influiscono sulle opportunità cui abbiamo accesso. Secondo questa visione, la razza è irrilevante, nonostante la realtà dica altro. Ma con tutta evidenza ciò diventa la base ideologica per la negazione del problema. Nella cultura a cui apparteniamo riceviamo messaggi precisi sul significato dell’appartenenza a un gruppo specifico, sulla differenza e soprattutto sulla gerarchia tra l’uno e l’altro. Impariamo così che un certo gruppo è “meglio” del suo “opposto”: per esempio è meglio essere giovani piuttosto che vecchi, ricchi piuttosto che poveri, istruiti piuttosto che analfabeti, maschi piuttosto che femmine, eterosessuali piuttosto che omosessuali, oppure bianchi piuttosto che di colore. E non è semplice affrontare con onestà il senso di superiorità che abbiamo interiorizzato per il fatto di essere bianchi.



Dall’altra parte la pretesa di oggettività conduce a presumere che sia possibile essere liberi da ogni forma di pregiudizio. Ma prendere consapevolezza dell’appartenenza a un gruppo significa rendersi conto di vedere il mondo da una prospettiva originariamente e irrimediabilmente parziale. E soprattutto che non può che essere così. Per molti bianchi è difficile riflettere sulla propria appartenenza e identità razziale, perché ci è stato insegnato che assumere una tale prospettiva equivale a essere prevenuti.

È questa la “trappola” che perpetua i pregiudizi, perché negare di averli li esime dal metterli in discussione.

Se è complicato riorientare i propri modi di giudicare la realtà, ancora più faticoso è accettare che siano altri a inserirci in una categoria, quella dei bianchi, sulla base del colore della nostra pelle, mettendo così in discussione contemporaneamente la nostra singolarità individuale e l’universalità del nostro punto di vista. Per molti bianchi subire una “generalizzazione” di questo tipo risulta tanto incomprensibile quanto inaccettabile. Ma è impossibile comprendere le dinamiche delle forme moderne di razzismo senza la capacità e la disponibilità a esplorare le generalizzazioni legate alle appartenenze di gruppo e i loro effetti sugli individui. Invece, un elemento cruciale nella costruzione di competenze relazionali è la capacità di tollerare il disagio di essere considerati in termini razziali.

In particolare, accettare esistenzialmente e personalmente la generalizzazione che collega l’essere bianchi e il razzismo è lungi dall’essere scontato. Soprattutto per coloro che si ritengono aperti al rispetto di ogni persona e alle differenze delle culture, essere associati al gruppo che discrimina non può che suscitare resistenze. Il razzismo però non si riduce a comportamenti malvagi e intenzionali di rifiuto consapevole dell’altro per motivi razziali: la discriminazione razziale è un elemento strutturale della nostra società, che prescinde dalle intenzioni dei singoli. È qualcosa che ci precede, al cui interno cresciamo, e che diventa la base di esperienze di vita divergenti, da cui conseguono visioni del mondo altrettanto differenziate.



In questa prospettiva si capisce perché l’abituale distinzione tra “buoni” – istruiti, progressisti, aperti, democratici, – e “cattivi” – rozzi, ignoranti, chiusi, reazionari, violenti – non sia d’aiuto. Difficilmente si accetterebbe di far parte della seconda categoria e di mettere in gioco la propria rispettabilità. Assai più utile ci sembra invece leggere queste situazioni con gli strumenti che la dottrina sociale e la teologia morale hanno elaborato mettendo a fuoco la categoria di “strutture di peccato”, o anche la distinzione tra “peccato originale” e “peccato personale”: senza poterci qui addentrare nell’argomentazione, si tratta di modi che permettono di considerare il male e la sua potenza di condizionamento della vita e del comportamento delle persone, anche prescindendo dalla sua imputabilità a una scelta libera e responsabile di una singola persona. È questa la chiave che consente di mettere a fuoco come il razzismo che imbeve le strutture della nostra società rappresenti un condizionamento inevitabile per ciascuno di noi, a dispetto delle migliori intenzioni e anche del sincero impegno per cambiare le cose. Se vogliamo scardinare questo costrutto sociale, la strada è quella di accettare con onestà che fa parte delle nostre vite e riconoscere le modalità in cui esso agisce nella nostra società.


Un’esperienza trasformativa

Questo non significa negare la responsabilità personale di chi compie atti di violenza o di discriminazione, né affermare che “la colpa è del sistema”, con gli esiti di deresponsabilizzazione a cui questo conduce. Solo la consapevolezza di far parte di un sistema sociale che si fonda sulla discriminazione razziale e la riproduce apre lo spazio per un’attivazione autenticamente etica della responsabilità di ciascuno: se questo è il sistema in cui sono inserito, a monte delle mie scelte, come posso abitarlo responsabilmente per cercare di modificarlo nel senso di una maggiore giustizia razziale?



Il modo in cui il sistema funziona non è “colpa” nostra, è così da ben prima che venissimo al mondo. La nostra responsabilità è piuttosto trovare come non esserne complici e costruire invece spazi di resistenza e di alternativa: per preservare il sistema e perpetuare le sue disfunzioni, bastano il quieto vivere e lo sguardo rivolto altrove.



Per questo abbiamo insistito sulla fondamentale importanza di prendere consapevolezza e di coltivarla ogni giorno. Occorre mantenere alta la guardia, a livello personale e ancora di più delle aggregazioni sociali di cui facciamo parte: anch’esse sono infatti attraversate dalla cultura della discriminazione. Vale per le istituzioni, le associazioni e le organizzazioni della società civile, il mondo del lavoro e quello dello sport (pensiamo ai cori negli stadi!), e vale anche per la compagine ecclesiale. Anche se può essere doloroso e faticoso, negli USA ci sono istituzioni ecclesiali che hanno cominciato a fare i conti con l’eredità che schiavitù e segregazione razziale hanno lasciato al loro interno. Indubbiamente è una consapevolezza che deve crescere, accettando umilmente che il nostro razzismo continui a riemergere e sia spesso necessario da ricominciare da capo.



Un secondo fronte di impegno, strettamente connesso al primo, è quello del lavoro educativo in vista della elaborazione progressiva di una diversa cultura. È una sfida che interpella in modo peculiare il mondo della scuola, che in molti contesti si rivela un potente strumento di riproduzione del sistema sociale, difetti compresi, così come gli ambiti dell’educazione extrascolatica, ma che non è estranea alla vita quotidiana di ciascuno: i piccoli gesti con cui si prova a spezzare la logica della discriminazione razziale non rappresenteranno la soluzione miracolosa e definitiva del problema, ma rafforzeranno in chi li compie e in chi li osserva la convinzione che un altro mondo è possibile e la determinazione a raggiungerlo. Non scoraggiamoci quindi: affrontare il razzismo è un processo complicato che ci impegnerà tutta la vita; ma è anche un’esperienza di autenticità e, soprattutto, profondamente generativa.

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