Nuovo coronavirus: a infezione globale, soluzioni condivise

Nuovo coronavirus: a infezione globale, soluzioni condivise

... Ci preme piuttosto mostrare come l’irrompere di qualcosa di inatteso, non ben definito e per di più minaccioso, scateni una serie di reazioni a livello sociale e politico.

Di fronte a un pericolo la spinta ad agire diventa impellente, anche se l’incertezza rende difficile decidere che cosa fare: infatti le risposte divergono molto, tra le persone come tra i Paesi.
Non fondandosi su dati sicuri né piani prestabiliti, queste azioni finiscono per far emergere criteri e dinamiche che abitano le nostre società a livello molto profondo, rendendole più evidenti e riconoscibili.

Così non sono poche le analogie tra le reazioni all’epidemia e quelle nei confronti di qualunque fenomeno percepito come sfuggente, non controllabile e almeno potenzialmente minaccioso: le migrazioni, i rapporti con la diversità o le minoranze etniche e religiose, ma anche i mutamenti climatici o altre questioni ambientali. In questa chiave riteniamo valga la pena rileggere queste settimane in cui abbiamo cominciato a fare i conti con il nuovo coronavirus, recuperando alcuni spunti per la ricerca di un modo maturo e responsabile di abitare un mondo sempre più interconnesso, lasciando alle spalle pregiudizi e manipolazioni.

1. Contagi

Virus e contagio sono termini che appartengono all’ambito medico, ma siamo sempre più abituati a utilizzarli anche altrove, dall’economia alla finanza, al mondo dei nuovi mezzi di comunicazione. Il nuovo coronavirus conferma queste evoluzioni linguistiche, perché sta impattando su numerosi ambiti, mostrando quanto profondamente siano interconnessi a dispetto delle apparenze. Chi e che cosa sta colpendo l’infezione?

a) Le persone
Certamente la malattia prende di mira le persone. La sua causa è un nuovo ceppo della famiglia dei coronavirus, capace di infettare non solo gli esseri umani ma anche molti altri animali e di modificarsi passando da una specie all’altra. Questo ceppo, probabilmente già in circolazione da qualche tempo, è stato isolato a Wuhan a fine dicembre 2019. I sintomi dell’infezione sono principalmente a carico dell’apparato respiratorio, sino a forme di polmonite e insufficienza respiratoria grave che possono risultare letali. Le informazioni scientificamente validate sono ancora molto sommarie e questo non fa che aumentare la confusione. Certamente con l’inizio di febbraio il numero delle vittime ha superato il migliaio, mentre i contagiati sono parecchie decine di migliaia, ma non è altrettanto facile reperire informazioni sul numero di persone guarite. La scarsa qualità e chiarezza dei dati dipendono anche dalle problematiche procedure di conteggio adottate in Cina e dal fatto che, viste le misure draconiane adottate dalle autorità, molti cinesi con sintomi lievi potrebbero tenersi alla larga dagli ospedali e quindi non essere rilevati.

Dopo alcuni giorni di incertezza, l’OMS ha indicato il nuovo coronavirus come una grave minaccia globale, anche se il numero di casi registrati al di fuori della Cina in generale, e della provincia dello Hubei in particolare, resta assai ridotto, indicando che a oggi le misure di contenimento paiono aver avuto effetto. Stupisce che ad ora non si abbia notizia di particolare diffusione del contagio in Africa, vista l’intensità dei rapporti che alcuni Paesi intrattengono con la Cina e l’elevato numero di cinesi che vi lavorano. Il timore è che ciò dipenda dalla mancanza di adeguati strumenti diagnostici, a ricordare che in materia di accesso alla sanità il globo è segnato da profonde disuguaglianze, certo non prive di effetto.

b) L’economia
Con grande rapidità l’infezione si è estesa all’economia, a seguito delle misure di contenimento adottate dalla Cina e poi anche da altri Paesi. Il prolungamento forzato del periodo festivo legato al Capodanno cinese ha un impatto negativo sulla produzione industriale, e ancora di più la quarantena a cui è stato sottoposto l’intero Hubei. Quella di Wuhan, infatti, è una delle regioni chiave per la produzione manifatturiera cinese, soprattutto nei settori dell’elettronica e della componentistica auto. Un effetto depressivo hanno anche le chiusure di centri commerciali e impianti, in particolare di operatori stranieri. Così un primo effetto del virus è stato produrre una revisione al ribasso delle stime della crescita del PIL cinese, in un anno in cui già era attesa in calo. La diminuzione, attuale e prevista, della domanda cinese ha immediatamente causato una discesa dei prezzi del petrolio e di altre materie prime.

Visto il peso dell’economia cinese su quella mondiale, il suo rallentamento non potrà non trasmettersi a livello globale, interessando in particolare i Paesi che vi esportano i loro prodotti (per l’Italia, in primis i settori della moda e del lusso). Ugualmente hanno un effetto depressivo sull’economia mondiale i vincoli agli spostamenti e il rallentamento dei commerci, oltre alla necessità di bloccare impianti produttivi (in Cina ma anche all’estero) per la mancanza delle forniture che non possono arrivare da Wuhan. Particolarmente colpiti saranno i settori del trasporto aereo e del turismo internazionale, con ricadute sensibili anche sul nostro Paese, diventato ormai la meta preferita dei turisti cinesi in Europa. Sia per il turismo, sia per la moda, un peso significativo deriva dall’impossibilità per gli operatori del settore di raggiungere l’Italia in un momento dell’anno in cui si definiscono i contratti per la prossima stagione. Non è un caso che il mondo degli affari abbia protestato vivacemente contro il blocco dei voli dalla Cina, disposto solo dal nostro Paese a differenza dei partner europei.

c) L’informazione e i media
Infodemia (infodemic) è il neologismo coniato dal Situation report dell’OMS del 2 febbraio 2020 per indicare che ci troviamo in una situazione di «abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno». Le notizie vere sono accompagnate da una grande massa di fake news, che si diffondono esattamente come un virus. Chi ne viene “infettato” e le rilancia attraverso gli infiniti canali disponibili, “contagia” a sua volta coloro che le ricevono e le ritengono credibili.

Dietro le fake news ci possono essere situazioni diversissime: dal desiderio di stupire e ottenere più rilanci o like, al tentativo di manipolare a proprio vantaggio la paura, alla difficoltà di decodificare messaggi che ricorrono all’ironia o al paradosso, specie quando raggiungono persone di culture o lingue diverse. In varie occasioni anche i canali ufficiali hanno diffuso messaggi discordanti o fatto ricorso a espressioni poco felici (ad esempio perché suonavano velatamente minacciose), alimentando sospetti e teorie del complotto. Senza dimenticare che in molte regioni del globo – a partire dalla stessa Cina – l’accesso all’informazione può essere molto limitato, per ragioni economiche, tecnologiche, o di controllo politico: tanto l’eccesso quanto la mancanza di informazione contribuiscono ad aumentare l’infezione.

2. Reazioni

La percezione di un pericolo almeno potenziale su diversi fronti connessi tra di loro, amplificata dalla confusione comunicativa che ne ostacola la messa a fuoco, ha fatto scattare a vari livelli una serie di reazioni assai meno nuove del virus che ha colpito Wuhan. La storia e la psicologia (individuale e collettiva) le conoscono bene, ma è utile poterle “isolare” in maniera chiara in una situazione relativamente circoscritta, per imparare a coglierle anche dentro a quelle più complesse.

a) Isolarsi e tagliarsi fuori
L’incetta delle mascherine, sparite anche dalle nostre farmacie, pur in assenza di qualsiasi indicazione dell’opportunità di farne uso abituale nel nostro Paese, è una buona immagine della prima di queste reazioni: interrompere i contatti, isolarsi. I Paesi lo fanno chiudendo le frontiere o limitando i voli. Certo, la quarantena resta uno dei modi più efficaci per arginare la diffusione di una epidemia, ma senza inutili esagerazioni. La ricerca dell’immunità conduce a tagliare la relazione, identificando l’altro come minaccia, e non come qualcuno che si confronta con lo stesso problema. E quando è portato all’estremo, questo atteggiamento finisce per inaridire la fecondità che richiede il contatto con la diversità. Chiudere fuori ogni rischio di contagio richiederebbe di rendere le frontiere impenetrabili a qualsiasi scambio, comprese le merci (e persino i medicinali!), e anche privare chi sta dentro della possibilità di uscire. Ma questo metterebbe rapidamente in ginocchio le nostre economie aperte e integrate, obbligandoci a un salto all’indietro che difficilmente potremmo trovare accettabile.

Il tema non riguarda soltanto il nostro tempo, come segnala lo stigma che in tutte le epoche ha contrassegnato chi è ritenuto impuro o contaminante: il malato (ad esempio il lebbroso), lo straniero (l’ebreo, il nero, ecc.), il diverso (colui che non si conforma a determinati dettami sociali: a seconda dei tempi, il peccatore o la peccatrice, la strega, l’eretico, l’omosessuale o l’aderente a determinate ideologie, ecc.), spesso con esiti da cui siamo oggi spaventati. Anche i Vangeli lo testimoniano, ma ci prospettano un diverso approccio, quando ci mostrano Gesù che va oltre gli stereotipi e i pregiudizi e suscita scandalo toccando i lebbrosi e sedendosi a tavola con i peccatori.

b) Controllare, mettere a tacere e insabbiare
Quanto più si precisano i contorni della vicenda, tanto più appare chiaro come la prima reazione “spontanea” dei funzionari cinesi sia stata quella di evitare di far scoppiare un polverone. La persecuzione a cui è stato sottoposto il primo medico ad aver segnalato qualcosa di anomalo, Li Wenliang, poi riabilitato prima della morte per il contagio, ne è l’esempio più evidente. Si tratta di un comportamento ben comprensibile all’interno del sistema di potere vigente in Cina, che pone al primo posto il mantenimento della stabilità e il buon nome del partito. Piuttosto che rischiare di essere considerati incapaci di gestire il problema se lo avessero segnalato, i responsabili locali – tardivamente rimossi dalle autorità centrali – hanno preferito provare a tenerlo nascosto nella speranza che si sgonfiasse rapidamente da solo. Nulla di inedito: è la stessa logica seguita dall’apparato burocratico sovietico nei primi giorni dell’incidente nucleare di Chernobyl.

Contrariamente a quanto talvolta veniamo invitati a credere, un sistema che assegna poteri molto ampi, se non addirittura pieni, non è affatto una garanzia di sicurezza per chi vi è sottoposto, perché inevitabilmente si manifesterà l’occasione in cui chi li esercita dovrà scegliere se usarli per tutelare se stesso o la collettività.

c) Dare la caccia al colpevole
Si è rapidamente manifestato anche un altro cortocircuito, quello che di fronte a un problema spinge a cercare non la soluzione, ma il colpevole, vero o presunto che sia. E poi a immaginare che la via d’uscita sia eliminarlo. È il meccanismo che sta alla base del diffondersi della sinofobia: dal rifiuto di consumare prodotti cinesi – anche se nulla autorizza a pensare che cibi e merci possano tramettere il contagio – o di frequentare locali gestiti da cinesi, fino alle preoccupanti aggressioni nei confronti di persone che in ragione della loro origine vengono letteralmente identificate con il virus, come riportano alcuni racconti.

Riparte la caccia all’untore, o meglio il tentativo di ridare pace e sicurezza alla collettività attraverso l’identificazione di un capro espiatorio: una persona (un gruppo, una famiglia, una etnia, una setta, un popolo, ecc.), magari debole o non in condizione di ribellarsi, su cui far ricadere la responsabilità di un male collettivo e di cui in qualche modo sbarazzarsi. Il problema non si risolverà, ovviamente, ma per un certo periodo si placheranno le ansie e le tensioni della società. Si tratta di un meccanismo tanto noto, quanto purtroppo sempre in agguato, e non è un caso che in questo stesso tempo viviamo un allarmante ritorno dell’antisemitismo. Vi rientrano anche l’ostinata ricerca della cospirazione e la propensione al complottismo, che nel mondo della post-verità risultano esasperate in confronto al passato. Non pochi hanno affermato senza fondamento che il virus è stato creato dal Governo per il controllo della popolazione, o da altri “poteri forti” internazionali. Inutile aggiungere che tali falsità viaggiano lontano nello spazio e nel tempo, e vanno “isolate” e non ritrasmesse, come invece spesso si fa senza neppure per prenderne le distanze o ironizzare. I virus fanno il loro lavoro a tutti i livelli.

d) Provare a trarne vantaggio
Quasi non ci facciamo più caso, ma viviamo immersi in una cultura che premia la capacità di vedere in qualunque situazione una opportunità. È certamente vero che il nuovo coronavirus rappresenterà per alcuni settori una possibilità di crescita: immaginiamo che cosa succederebbe al valore delle azioni dell’azienda che dovesse scoprire una cura o un vaccino! Poi non va dimenticato che per la speculazione anche i momenti di contrazione possono essere molto redditizi: si guadagna quando i prezzi variano, a prescindere se in aumento o in diminuzione. Se poi, come sembra che stia accadendo, le banche centrali di tutto il mondo reagiranno provando a sostenere l’economia contro i rischi di rallentamento o recessione con nuove robuste iniezioni di liquidità, anche questo finirà per incentivare la speculazione.

Ma quello economico non è l’unico vantaggio che questa situazione permette di ottenere. Numerosi sono i casi in cui la circolazione di fake news è stata stimolata da esponenti politici, che giocano sul virus per raccogliere maggiori consensi, magari proprio in chiave anticinese.

3. Affrontare responsabilmente l’epoca del coronavirus

L’esame di queste reazioni spropositate non è un invito a negare il problema: sarebbe altrettanto irresponsabile. Una minaccia, anche se al momento non pare appropriato definirla apocalittica, c’è e deve essere gestita nel migliore dei modi. A tutti i livelli abbiamo quindi bisogno di identificare le precauzioni appropriate e metterle in atto scrupolosamente, ma evitando eccessi e isterie. Proprio in quanto fa parte della realtà, il virus va affrontato in modo realistico, innanzi tutto assumendo i limiti della situazione in cui ci troviamo. La nostra conoscenza è ancora molto sommaria e servirà del tempo per affinarla e mettere a punto un vaccino. A differenza di quanto affermato da alcuni annunci affrettati, questo probabilmente richiederà diversi mesi, se non più di un anno, come nella maggior parte dei casi analoghi. Nel frattempo, occorrerà l’isolamento dei casi conclamati e da parte di tutti l’attento rispetto degli ordinari standard igienici e relazionali: lavarsi le mani, coprirsi se si tossisce o si starnutisce.

Questo ricorso al principio di realtà ci proteggerà dai rischi delle impostazioni ideologiche, sia quelle minimizzanti, sia quelle che trovano troppo rapidamente una soluzione semplice a un problema complesso, senza tener conto di tutte le sfaccettature. Adottare questo atteggiamento richiede autocontrollo e senso della misura, ma ci può aiutare a custodire anche altri beni importanti, oltre alla salute pubblica, o meglio a far fronte all’infezione non solo in ambito sanitario, ma anche negli altri che ne subiscono l’impatto.

Tutto ciò interpella diverse categorie di attori: i cittadini, che devono evitare di farsi trascinare dall’emotività; i responsabili politici, perché operino in riferimento al bene comune, e non a qualche interesse di parte (compreso quello economico di chi li sostiene); il mondo del business, nella disponibilità ad accettare vincoli giustificati, anche se questo significa ridurre i margini di profitto.

Infine il ricorso al principio di realtà di fronte al nuovo coronavirus interpella il mondo dell’informazione e in particolare i social media. La ragion d’essere dei media e della professione giornalistica è la possibilità di aiutare il pubblico a distinguere l’informazione buona da quella cattiva, ma l’evoluzione della tecnologia ha finito spesso per trasformarli in tribune dove ogni opinione ha uguale diritto di cittadinanza. Su temi delicati come un’epidemia, questo è troppo rischioso. La sfida è allora provare a scoprire come anche i new media possano recuperare una funzione di orientamento, contribuendo a curare l’infezione da cui sono stati colpiti. Sono positivi alcuni segnali di disponibilità venuti dalle grandi piattaforme social, quanto meno nell’indirizzare gli utenti verso fonti autorevoli. Se troveranno davvero il modo di farlo, avremo probabilmente scoperto un modo migliore per fare uso delle loro potenzialità.

4. Ci si salva soltanto insieme

Il medesimo virus può potenzialmente attaccare ogni membro della specie umana e come abbiamo visto i suoi effetti riescono a “infettare” anche ambiti che nulla hanno a che vedere con la nostra biologia. Davvero un virus può rappresentare il tipo ideale del nemico comune e la sua minaccia ricordarci quanto profondi siano i legami e le connessioni che uniscono le vite degli esseri umani e gli ambiti della loro azione. Da sempre la strategia migliore contro un nemico comune non è dividersi, ma allearsi, fare fronte comune, combattere insieme.

Praticare le forme prudenti di limitazione degli spostamenti e di quarantena non può diventare pretesto per cedere alla logica fallace dell’isolazionismo o dell’immunità che si spera di ricavarne. La dinamica delle infezioni ci ricorda come la salute di ciascuno dipenda da quella di tutti gli altri a scala globale: non c’è sovranismo che tenga. La salute è un bene originariamente collettivo: se tutelo soltanto la mia, o quella dei miei concittadini ed elettori, gli sforzi potranno essere vanificati in qualsiasi momento da una minaccia proveniente dall’esterno. Per questo in ambito sanitario ha senso condividere conoscenze e dotarsi di strumenti di cooperazione e governance internazionale, quali l’OMS, che potranno intervenire a fianco dei Paesi più deboli ed evitare che le notizie di possibili emergenze siano trascurate o vengano nascoste, aumentando i rischi per tutti. Alla giusta dose di quarantena occorre saperne accoppiare una altrettanto giusta di collaborazione e solidarietà.

Dedicarci a capire come affrontare questa epidemia è l’occasione per imparare che cosa significa vivere nel mondo delle interconnessioni, rendere più efficienti i sistemi sanitari e soprattutto più mature le nostre società e i nostri sistemi politici, in modo da fare ancora meglio la prossima volta. L’occasione, certo, non mancherà.

di Giacomo Costa

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