L'Osservatore Romano

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Made in China?
No, made in Africa
Le strategie di investimento di Pechino

22 ottobre 2019 - di Giulio Albanese

L’Africa ha rappresentato nel corso dell’ultimo ventennio un punto di riferimento strategico per la Cina, soprattutto dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico e del reperimento delle commodity (materie prime). L’interesse del cosiddetto Impero del Drago da alcuni anni non riguarda comunque solo il settore estrattivo, ma anche la realizzazione di infrastrutture strategiche di ogni genere: dalla costruzione di porti, strade e ferrovie, agli scambi commerciali e alle operazioni finanziarie.

Nella prima metà del 2019, il volume totale dell’import/export della Cina con l’Africa è stato di 101,86 miliardi di dollari, in crescita del 2,9 per cento su base annua. Mentre la cifra totale degli investimenti e delle infrastrutture cinesi è stimato attorno ai 2 mila miliardi. Secondo il Brookings Institute, negli ultimi anni, la Cina si è imposta rivelandosi, a livello mondiale, come il maggior creditore e principale partner commerciale per molti stati sub-sahariani. Allo stesso tempo, anche il numero di imprese cinesi operanti in Africa è aumentato considerevolmente e attualmente ammonta a circa 10 mila unità; di queste, il 90 per cento non ha alcuna partecipazione statale. Da rilevare inoltre che il nuovo African Continental Free Trade Area (AfCFTA), entrato in vigore il 30 maggio scorso, è stato fortemente sostenuto dal governo di Pechino. L’intesa ha come oggetto l’abbattimento delle tariffe commerciali su beni e servizi, l’armonizzazione degli standard di produzione e la promozione degli investimenti nel settore delle infrastrutture, delle telecomunicazioni e dei servizi finanziari. L’AfCFTA costituisce, alla prova dei fatti, un notevole passo in avanti nel processo di integrazione economica che la Cina sta portando avanti già da tempo con tutti i Paesi africani. D’altronde, la posta in gioco è alta se si considera che l’accordo interessa un miliardo e trecento milioni di potenziali consumatori africani e ha un valore stimato di circa 2,5 trilioni di dollari.

Il libero scambio, da questo punto di vista, potrebbe dare il via a un processo di trasformazione strutturale del continente, ovvero la sua industrializzazione. Attualmente, stando ai dati ufficiali, il commercio intra-africano è orientato sul manifatturiero, ben radicato in alcuni Paesi come l’Etiopia e la Nigeria, e rappresenta il 67 per cento delle esportazioni all’interno del continente. Ma è evidente che l’Africa ha un bisogno impellente di imprese locali in grado di affermare la circolazione di beni e servizi al suo interno. Ed è proprio su questo versante che la Cina si sta imponendo come principale fattore trainante nel processo di trasformazione del continente africano. Pechino, ad esempio, ha recentemente lanciato un fondo infrastrutturale di un miliardo di dollari per l’Africa, nell’ambito della Belt & Road Initiative, progetto strategico di dimensioni enormi che fa capo proprio alla Cina, intenzionata a raccogliere attorno a sé il sostegno economico e politico internazionale necessario a realizzare un’opera maestosa sulla falsariga delle antiche Vie della Seta: una terrestre (Silk Road Economic Belt) e una marittima (Maritime Silk Road).

Detto questo, non è tutto oro quello che luccica. Infatti, gli investimenti cinesi in non pochi stati africani hanno fatto schizzare il debito dei governi locali alle stelle, arrivando a toccare i 130 miliardi di dollari negli ultimi 18 anni. Ad esempio, il governo di Nairobi (Kenya) ha ottenuto un prestito di 3,2 miliardi di dollari dalla Cina per realizzare la linea ferroviaria di 470 chilometri tra Mombasa e la capitale. Se non riuscirà a saldare il debito con Pechino potrebbe perdere il controllo del porto di Mombasa, impiegato come garanzia del prestito. Per non parlare della Repubblica Democratica del Congo che è uno degli Stati africani più a rischio, a tal punto che le autorità di Kinshasa sono state costrette a ricorrere a un prestito di salvataggio del Fondo monetario internazionale (Fmi). Anche Gibuti potrebbe perdere il controllo del proprio scalo portuale se sarà inadempiente nei confronti della Cina, che ha investito 15 miliardi di dollari nelle infrastrutture. A questo proposito, l’Fmi e la Banca Mondiale (Bm) hanno espresso preoccupazione. In effetti, il debito aggregato dell’Africa Sub-sahariana si aggira complessivamente attorno ai 700 miliardi di dollari, mentre il valore assoluto del Pil di molti Paesi africani è ancora molto basso (nel caso della Repubblica Centrafricana, di poco superiore ai 2 miliardi di dollari). Pertanto non c’è da dormire sonni tranquilli anche se poi, a livello internazionale, alcuni osservatori intravedono per l’Africa i prodromi dell’agognato cambiamento. Lo scorso 30 aprile, il Financial Times ha pubblicato l’opinione di Basil El-Baz, fondatore, chairman e chief executive della Carbon Holdings, il quale ritiene che entro 50 anni l’etichetta “Made in Africa” prenderà il posto della più nota dicitura “Made in China”. Questo in sostanza significa che i prodotti cinesi a basso costo, quelli cioè che in questi anni hanno congestionato il mercato dei Paesi occidentali, saranno sostituiti da quelli africani. L’Africa dunque potrebbe arrivare e basare la propria economia non solo sulle esportazioni di commodity, ma anche di beni a basso costo, seguendo proprio l’esempio della Cina. In effetti, nei prossimi decenni, la forza lavoro, per ragioni demografiche e sociali, sarà concentrata prevalentemente in Africa. Una trasformazione simile non è certamente scontata, anche perché molto dipenderà dagli investimenti nel settore industriale, dalle dinamiche difficilmente prevedibili all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) e dalla capacità dei governi locali di promuovere politiche di welfare rispettose della dignità dei lavoratori.

Una cosa è certa: mentre la Cina sta coltivando una nuova classe dirigente, assecondando la politica della “soft-power”, senza dunque intromettersi negli affari di politica interna dei paesi africani (democrazia, partecipazione e diritti umani), l’Europa è sempre più alle prese con il tema migratorio, sottovalutando le reali opportunità di un continente che invoca dignità e riconoscimento. La grande domanda che comunque riguarda il futuro dell’Africa è una sola: riusciranno le classi dirigenti africane e la società civile del continente a difendere la propria gente dalle contaminazioni della cultura globale dello scarto? Come scrive Papa Francesco nella Laudato si’: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante iniquità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri».

di Giulio Albanese

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