Costruire insieme il futuro del lavoro

Costruire insieme il futuro del lavoro

Costruire insieme il futuro del lavoro

La celebrazione del centenario dell’Organizzazione internazionale del lavoro è stata colta come un’occasione per rilanciarne la missione alla luce delle sfide di oggi, facendo leva su alcuni punti di forza: il dialogo tra Stati e parti sociali; il valore di una normativa sul lavoro internazionale; il lavoro dignitoso.

Fascicolo: giugno-luglio 2019

Tags: dialogo ; ecologia integrale ; istituzioni internazionali ; lavoro ; organizzazione internazionale del lavoro ; rapporto chiesa-società ; sindacato ; società civile ; stato
«Nuove forze stanno trasformando il mondo del lavoro. Le transizioni che questa evoluzione comporta richiedono di adottare misure energiche». Si apre con queste parole il Rapporto Work for a brighter future (Lavorare per un futuro più promettente) pubblicato lo scorso 22 gennaio dalla Commissione globale sul futuro del lavoro (disponibile in varie lingue in <www.ilo.org>). Quest’ultima, formata da 23 personalità di tutti i Paesi del mondo (politici, diplomatici, accademici, rappresentanti di sindacati, associazioni e ONG, tra cui l’italiano Enrico Giovannini), venne istituita nel 2017 dall’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro, spesso designata con l’acronimo inglese ILO) nell’ambito del processo di preparazione al centenario della propria fondazione, avvenuta nel 1919 all’interno dei negoziati di pace per la conclusione della Prima guerra mondiale (per maggiori informazioni sulla storia dell’OIL e i suoi passaggi cruciali rinviamo all’abbondante materiale disponibile sul sito dell’organizzazione, <www.ilo.org>).

Di particolare rilievo è l’appuntamento della Conferenza internazionale sul lavoro, prevista come ogni anno a giugno, che è chiamata ad approvare una Dichiarazione solenne con cui la missione dell’OIL verrà rilanciata, aggiornandola alle sfide del mondo di oggi: a metterle a fuoco è servita l’iniziativa “The future of work” (“Il futuro del lavoro”) che ha impegnato l’organizzazione fin dal 2015. Fondata in un contesto segnato da eurocentrismo e colonialismo, l’OIL si trova a incarnare in un mondo enormemente più variegato e plurale in termini culturali, politici e sociali, e al tempo stesso estremamente più interconnesso e interdipendente, l’intuizione con cui si apre il Preambolo della sua Costituzione: «una pace duratura non può che essere fondata sulla giustizia sociale».

Pur senza suscitare particolare interesse da parte dei mass-media e dell’opinione pubblica, l’iniziativa “The future of work” ha raccolto una significativa attenzione degli attori del mondo del lavoro, delle altre organizzazioni internazionali e di alcune realtà della società civile, che hanno avviato la loro riflessione sul tema. A vari livelli anche la Chiesa e numerose organizzazioni cattoliche si sono coinvolte in questo processo, in dialogo con la stessa OIL, come abbiamo più volte documentato sulle nostre pagine (cfr riquadro al fondo dell’Editoriale). Ne spiega le ragioni la Commissione affari sociali della COMECE (Commissione delle Conferenze episcopali della UE), nel documento Shaping the future of work (2018): «Nel contesto dell’industrializzazione della fine del XIX secolo, papa Leone XIII evidenzia le conseguenze per l’essere umano delle nuove tecnologie e della produzione in serie. Oggi la Chiesa si sente nuovamente chiamata a leggere i segni dei tempi – i nuovi sviluppi della digitalizzazione, dell’intelligenza artificiale e della transizione ecologica – e a lanciare un appello a favore della dignità del lavoro per tutti».

In questa linea, nelle pagine che seguono, proveremo a raccogliere alcuni elementi che il secolo di vita dell’OIL ci consegna alla ricerca di come possono continuare a essere fecondi e generativi anche nel contesto contemporaneo, nel mondo del lavoro e non solo. Ci aiuta a metterli a fuoco la Bozza della Dichiarazione finale proposta alla discussione della prossima della Conferenza internazionale sul lavoro, che a metà maggio è stata pubblica sul sito dell’OIL (cfr International Labour Conference, 108th Session, Centenary outcome document, 2019).

Tripartitismo e dialogo sociale
Il primo è certamente il metodo del dialogo sociale come frutto della struttura tripartita dell’OIL. Fin dalle origini al suo interno ogni Paese membro è rappresentato da una delegazione composta da due delegati governativi, da un rappresentante dei lavoratori e da uno dei datori di lavoro. Questa stessa tripartizione si ripete anche a livello del Consiglio di amministrazione e informa l’intera struttura. In altre parole – ed è probabilmente un unicum nel panorama delle organizzazioni internazionali – per l’OIL il “volto” di ciascun Paese non coincide con quello del rispettivo Governo, ma vi è una rappresentanza dotata di una legittimità originaria e indipendente per quelle che in italiano chiamiamo parti sociali. La costituzione dell’OIL sfugge così a quell’enfasi sulla statualità da cui sono segnate tutte le organizzazioni internazionali (composte appunto da Stati) e che in alcune fasi finisce per tenerle prigioniere, spesso quando dominano orientamenti nazionalistici o unilateralistici.

Alla base vi è una intuizione del fatto che lo Stato, pur rivestendo un ruolo centrale, non è davvero in grado di riassumere e rappresentare adeguatamente tutte le componenti della società, ma che vi è spazio o addirittura necessità di circuiti alternativi di rappresentanza. Il risultato è che, almeno all’OIL, vi sono organizzazioni che potremmo definire “corpi intermedi” (sindacati e centrali datoriali) che siedono allo stesso tavolo dei Governi su un piano di parità, permettendo così una dinamica di dialogo sociale di particolare ricchezza. Inoltre, questo facilita la costruzione di legami transnazionali, sulla base della comune appartenenza a un certo ruolo sociale (ad esempio tra i sindacati). In radice questa struttura rende visibile il fatto che la cittadinanza (cioè il rapporto che lega ogni cittadino allo Stato di cui fa parte) non riassume né esaurisce tutti gli aspetti dell’identità sociale di persone e gruppi. Si tratta di una intuizione di grande modernità, ancor più se pensiamo all’epoca in cui è stata elaborata, che merita di essere ulteriormente sviluppata a molti livelli.

Una prima riflessione investe il circuito della rappresentanza implicito nella struttura tripartita dell’OIL: si è rivelata una carta vincente e per questo mantiene tutta la sua importanza specie nei contesti più fragili. Tuttavia è necessario riconoscere che conferisce priorità quasi assoluta al modello del lavoro salariato formale, che prevede l’esistenza di parti sociali istituzionalizzate. Risulta meno efficace nell’includere altre porzioni del mondo del lavoro, come il settore informale, i lavoratori marginali o le forme di lavoro autonomo che si vanno imponendo in alcuni settori delle economie avanzate. Spesso chi lavora in questi ambiti non è rappresentato dai sindacati, ma da soggetti diversi, magari a base religiosa (in Italia possiamo pensare al mondo dei patronati), o da forme di autorganizzazione (movimenti popolari, associazioni di migranti, ecc.).
È quindi necessario interrogarsi su quali spazi di coinvolgimento siano possibili o addirittura necessari per quelle fasce del mondo del lavoro che l’attuale struttura tripartita inevitabilmente lascia ai margini, in modo che tutte le componenti possano davvero partecipare al dialogo sociale.

Il discorso non riguarda però solo il funzionamento dell’OIL: possiamo immaginare che cosa potrebbe significare applicare un modello tripartito anche alla vita politica nazionale? È possibile pensare a una diversa articolazione del rapporto tra Stato e corpi intermedi, in cui il primo non faccia necessariamente la parte del leone? Si tratta di riprendere a ragionare sulla differenza tra pubblico e statale, sul ruolo pubblico di entità istituzionali fondate non sullo Stato ma sul radicamento nel corpo sociale, sul rapporto tra queste e lo Stato e su forme plurali di rappresentanza. In uno scenario di crescente indebolimento dei corpi intermedi, che rischia di lasciare ciascuno da solo di fronte al potere dello Stato, si tratta di una questione di grande importanza anche in termini di evoluzione delle forme della democrazia.

Un interrogativo analogo investe il funzionamento delle organizzazioni internazionali diverse dall’OIL, che restano imperniate in modo esclusivo su Stati e Governi, conferendo alle espressioni della società civile un ruolo al massimo consultivo. Questo è coerente con la logica della diplomazia da cui queste organizzazioni promanano, ma rappresenta anche una delle cause dell’inceppamento del loro funzionamento, specie quando dinamiche di isolazionismo, nazionalismo o sovranismo fanno scattare meccanismi di veti incrociati da cui non si riesce a uscire. Le polarizzazioni che segnano oggi il rapporto tra Stati membri e le istituzioni europee lasciano immaginare che anche la UE potrebbe beneficiare dall’adozione di quote di logica tripartita, che lascino spazio a forme di legittimazione e rappresentanza che non si radicano nella statualità e stimolino la tessitura di relazioni, appartenenze e identità su basi plurali. Anche il documento della COMECE sopra citato chiede un maggiore coinvolgimento delle parti sociali, della società civile e delle Chiese (cioè di attori non statali) nel Semestre europeo (Raccomandazione 12). Potrebbe essere una delle piste su cui ragionare nel pensare a quella sempre più urgente riforma delle istituzioni europee che certamente impegnerà, insieme agli Stati membri, il Parlamento appena eletto e la nuova Commissione che sarà nominata in autunno.

L’elaborazione di norme internazionali
Un secondo elemento di cui si ribadisce la centralità nel mandato dell’OIL è il compito di elaborare norme e standard internazionali in materia di lavoro, e di supervisionarne l’applicazione, adottando un approccio dichiaratamente multilaterale. Certo, questo è un modo per riaffermare la validità di quanto realizzato in questo secolo di storia, ma più in radice manifesta la fiducia nella possibilità di elaborare strumenti di governance internazionale con un metodo multilaterale. Si tratta di qualcosa di cui oggi molti dubitano, tra gli osservatori così come tra i politici che guidano molti Paesi.

Viene ribadita dunque la consapevolezza che l’esistenza di norme sul lavoro che vincolino tutti i Paesi costituisce una sorta di bene comune globale, che rintracciamo già nella Costituzione dell’OIL del 1919. Anche in materia di lavoro vi è dunque necessità di forme di governance e di esercizio dell’autorità che permettano di promuovere questo bene comune che risulta al di fuori del raggio di azione dei singoli Stati. La storia dimostra come, in mancanza di questi vincoli, gli Stati restino spesso prigionieri di una sorta di competizione al ribasso, che comprime la tutela dei lavoratori sperando così di attrarre investimenti produttivi sottraendoli ad altri Paesi più rigorosi. È il fenomeno che prende il nome di dumping sociale, del tutto analogo a quello ambientale o a una legislazione fiscale pensata per attirare capitali dall’estero, fino al caso limite dei paradisi fiscali. Lasciato a se stesso, praticamente nessuno Stato ha la forza di resistere alla pressione di ridurre gli standard per fare concorrenza al proprio vicino, e peggiora così la condizione di tutti.

Lo ricordava papa Francesco nel discorso tenuto il 2 maggio scorso all’assemblea della Pontificia Accademia delle Scienze sociali: «Nell’attuale situazione di globalizzazione non solo dell’economia ma anche degli scambi tecnologici e culturali, lo Stato nazionale non è più in grado di procurare da solo il bene comune alle sue popolazioni. Il bene comune è diventato mondiale e le nazioni devono associarsi per il proprio beneficio. Quando un bene comune sopranazionale è chiaramente identificato, occorre un’apposita autorità legalmente e concordemente costituita capace di agevolare la sua attuazione». Nel campo del lavoro, l’OIL è quanto di meglio disponiamo per svolgere questo compito.

Anche in questo caso riconosciamo tutto il valore di questa intuizione in una fase storica in cui la delusione per una globalizzazione che ha portato a maggiori disuguaglianze dà forza a visioni nazionaliste e sovraniste, che negano in radice l’esistenza di qualsiasi bene comune sovranazionale, il che non può che condurre a un ordine internazionale fondato sul conflitto di ogni Stato con tutti gli altri e in fin dei conti sulla legge del più forte.

L’agenda del lavoro dignitoso
Lavoro dignitoso è l’espressione che l’OIL ha scelto per riformulare la propria missione. Come afferma il rapporto Decent work (1999), «oggi l’obiettivo primario dell’ILO è garantire che tutti gli uomini e le donne abbiano accesso ad un lavoro produttivo, in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana». Con grande rapidità, la locuzione si è imposta ben oltre i confini dell’OIL, tanto da entrare nella formulazione dell’ottavo degli Obiettivi di sviluppo sostenibile – «Lavoro dignitoso e sviluppo sostenibile» – adottati dalle Nazioni Unite per il periodo 2015-2030. Ricordiamo che almeno dal punto di vista lessicale il lavoro era assente dalla formulazione dei precedenti Obiettivi di sviluppo del Millennio (2000-2015).

Si tratta di un indubbio successo dell’OIL, provato anche dalla capacità del concetto di “federare” soggetti di provenienza molto diversa, come sindacati, ONG, movimenti di militanti. Fin da subito, anche la Chiesa ne ha riconosciuto le potenzialità: già nel 2000, in occasione del Giubileo dei lavoratori (1° maggio), Giovanni Paolo II incoraggiò l’azione dell’OIL, lanciando un appello per la creazione di una coalizione in favore del lavoro dignitoso. Lo ricorda Benedetto XVI nel n. 63 dell’enciclica Caritas in veritate (2009), che torna a riflettere proprio sul significato concreto di dignità del lavoro.

Il successo dell’espressione non deve far dimenticare il rischio del suo svuotamento retorico, che la trasformerebbe in una formula di rito nel lessico internazionale “politicamente corretto”, se non di passepartout per la costruzione di un apparato burocratico e tecnocratico, ma molto debole in termini di spinta per il cambiamento. Questo rischio dipende dal fatto che del suo effettivo contenuto si possono dare interpretazioni anche molto diverse, sulla base delle antropologie a cui si fa riferimento, che oggi a livello globale sono estremamente differenziate in un mondo sempre più plurale. È lo stesso problema che investe il lessico dei diritti umani, ritenuto da molti troppo occidentale, o del risultato della ricerca di evitare i conflitti tra interpretazioni concentrandosi sul piano dell’azione o limitandosi a proporre un minimo comune denominatore antropologico da cui nessuno possa sentirsi escluso, ma che si rivela molto povero e spesso tributario di una visione prevalentemente individualista. Il linguaggio ne è una buona spia, ad esempio nell’oscillazione (in particolare tra lingue diverse) tra termini come individuo, persona ed essere umano, che solo con eccessiva approssimazione possono essere considerati sinonimi. È proprio il dialogo tra posizioni diverse e la disponibilità a mettersi reciprocamente in questione che può condurre ciascuna posizione a dare espressione al meglio delle proprie risorse, a vantaggio di tutti.

Un secondo elemento di riflessione concerne il fatto che i contenuti concreti dell’agenda del lavoro dignitoso restano in buona parte ancorati alle dinamiche del rapporto tra lavoratori e datori di lavoro (livelli salariali, sicurezza sul lavoro, libertà sindacali, parità di genere, ecc.). Si tratta di un’enfasi fondamentale per mantenere alta la guardia contro lo sfruttamento, ma non deve farci dimenticare che il lavoro è molto di più, in quanto costituisce una dimensione fondamentale della relazione dell’essere umano con la società e l’ambiente naturale. Il concetto di lavoro dignitoso deve quindi svilupparsi anche su questi piani. L’agenda già contiene elementi che spingono in questa direzione, che vanno raccolti e potenziati. Per dirlo con un esempio, un lavoro che causi distruzione e morte (ad esempio la produzione di mine antiuomo) o che abbia ricadute ambientali particolarmente negative (è ormai il caso della filiera dei combustibili fossili, oltre che di altre attività inquinanti) non può essere considerato dignitoso anche quando sono rispettati gli standard di sicurezza, i livelli salariali o le libertà sindacali. Il dilemma che vive la città di Taranto nel rapporto con lo stabilimento siderurgico ne è una rappresentazione plastica di grande efficacia.

Non tocca solo all’OIL
È del tutto evidente che un compito di questo genere non può riguardare solo l’OIL, la quale mostra grande apertura e interesse ai contributi provenienti da molti attori sociali, incluse le organizzazioni di ispirazione religiosa. Anche Aggiornamenti Sociali sta cercando di fare la propria parte, attraverso l’iniziativa “The future of work – Labour after Laudato si’”, con cui una serie di partner internazionali si interroga proprio su come ripensare il lavoro all’interno del quadro di riferimento dell’ecologia integrale proposto da papa Francesco. Il riquadro al termine dell’Editoriale indica alcuni siti in cui trovare una più ampia presentazione dell’iniziativa, e alcune pubblicazioni che nascono al suo interno. L’evento più recente è il Colloquio internazionale sul tema del lavoro nella transizione ecologica, svoltosi a Parigi nella seconda metà di maggio, con il lancio di un Manifesto di cui riproduciamo qui di seguito una parte.

Aggiornamenti Sociali è direttamente impegnata su due fronti: il primo è una ricerca su come il magistero di papa Francesco stimoli pratiche di innovazione sociale, cioè su quanto le organizzazioni, di matrice cattolica e non solo, riescano effettivamente a tradurre in atto i valori a cui si ispirano. La ricerca, condotta insieme al CeSPI (Centro studi di politica internazionale) di Roma, è partita dall’analisi delle affermazioni di papa Francesco sul tema del lavoro e come primo risultato ha prodotto la pubblicazione del volume Il lavoro è dignità (cfr riquadro in fondo), ma è ancora in corso e certamente daremo spazio ai risultati sulle nostre pagine e sul nostro sito. Lo stesso faremo per gli altri cinque filoni di ricerca dell’iniziativa, che affrontano questioni come il futuro dell’imprenditorialità, il rapporto tra occupazione e violenza, le questioni delle migrazioni, dell’intelligenza artificiale e della transizione ecologica. Il secondo impegno di Aggiornamenti Sociali, anche questo con una rete di partner internazionali, è diretto alla formazione dei futuri leader delle organizzazioni di ispirazione cattolica attive nel mondo del lavoro su un duplice piano: l’acquisizione di strumenti operativi di lettura della realtà e l’approfondimento delle motivazioni personali e spirituali del loro impegno, alla luce della dottrina sociale della Chiesa.

Attraverso questa iniziativa, evidentemente limitata rispetto alla vastità del compito, sperimentiamo come il dialogo e l’incontro tra persone e istituzioni che sono portatrici di prospettive diverse in termini di provenienza geografica, cultura, appartenenza confessionale, ambiti di competenza, risultino davvero fecondi. Allargare il tavolo del confronto richiede un investimento a molti livelli, ma rappresenta l’unica strada se vogliamo davvero dare gambe a quel “piano per un futuro del lavoro dignitoso incentrato sulla persona” che l’OIL propone a sé e a suoi partner come frutto del proprio centenario. C’è bisogno del contributo di tutti perché questa visione si sviluppi in senso autenticamente integrale, includendo tutte le differenze e articolando tutte le dimensioni della persona e della realtà: ambientale, sociale, culturale, spirituale, ecc. Il futuro del lavoro dipende (anche) dall’opera di ciascuno di noi.

Giacomo COSTA
Paolo FOGLIZZO

aggiornamentisociali.it/articoli/c…del-lavoro/

www.aggiornamentisociali.it/articoli/costruir...