«Chi si avvicina a partiti populisti e sette fondamentaliste si sente lasciato indietro»

«Chi si avvicina a partiti populisti e sette fondamentaliste si sente lasciato indietro»

L’idolatria di chi sfrutta �la croce, l’odio diffuso, la necessità di «tornare �a essere popolari» e l'importanza della democrazia e della formazione.

Parla il direttore di Civiltà Cattolica Antonio Spadaro

DI GIUSEPPE GENNA - 05 febbraio 2019

È rientrato dal recente viaggio a Panama , in cui ha accompagnato il pontefice, Antonio Spadaro.
È direttore de La Civiltà Cattolica, interprete privilegiato della parola di Francesco, il cui papato ha definito «intimamente drammatico», alla luce di tempi turbolenti, animati dalla desolazione.
Ne è testimonianza il recente volume di Bergoglio “Lettere della tribolazione” (edito da Àncora, a cura dello stesso Spadaro e di Diego Fares), un testo che risale a trent’anni fa e appare lucidamente attuale - meditazioni sulle parole di una crisi che sta coinvolgendo l’umanità e la Chiesa.
E proprio su parole guida «per tornare a essere popolari» si è incentrata una recente proposta di padre Spadaro, in un editoriale pubblicato su “La Civiltà Cattolica”.

Parole semplici ma abissali, che risuonano oggi con una forza rinnovata: paura, ordine, migrazioni, democrazia, partecipazione, lavoro.
Sono i perni su cui si installa la vita vivente del popolo e sono anche i termini che convergono in un insegnamento di Papa Francesco: la differenza tra abitante e cittadino.

«Nel considerare il popolo come categoria mitica, si mette in evidenza che non si tratta della fredda astrazione di un concetto, ma di una realtà viva. Francesco lo ripete spesso: è cittadino chi ha l’opportunità di sentirsi attore del destino proprio e di quello della nazione. È impossibile pensare il futuro di una società senza la partecipazione attiva - e non solo nominale - di ciascuno dei suoi membri. Non basta essere abitanti per essere cittadini. Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia è un tema forte. Senza partecipazione la democrazia si atrofizza, diventa una formalità, perché lascia fuori il popolo dalla costruzione del suo destino. Essere cittadini viene prima di qualunque identità politica e religiosa: si sta insieme per costruire insieme la società».

Il popolo ritorna, da sempre, soggetto di rivoluzione o di reazionariato, motore e giustificazione delle politiche in fasi di aggressione al privilegio o di egoismo generalizzato. Se non attore astratto o simbolo svuotato, che cosa è dunque il popolo, in un tempo confuso e accelerato come il nostro, che impone e enfatizza la formula del populismo?

«Il popolo si fa in un processo, con l’impegno, in vista di un obiettivo o un progetto comune. La storia è costruita da questo processo di generazioni che si succedono dentro un popolo. Quando si tenta di spiegare cosa esso sia, si impegnano categorie logiche, che non bastano a spiegare il senso dell’appartenenza al popolo. Essere parte del popolo significa partecipare di un’identità comune, composta di legami sociali e culturali complessi. Non si tratta di una procedura automatica, è un processo lento e difficile, in direzione di un progetto comune».

Nel centenario della fondazione del Partito popolare italiano, con l’Appello ai Liberi e Forti di don Sturzo pubblicato nel 1919, l’editoriale su come tornare a essere popolari è stato letto anche come proposta di un ripensamento, che mette in discussione le modalità con cui negli ultimi decenni la Chiesa e il cosmo cattolico si sono impegnati nella società, dopo la rinuncia al riconoscimento di un contenitore politico unico.
«Penso sia una discussione molto interessante.
I cattolici, davanti alle sfide di una politica che prende toni e forme sempre più distanti dal messaggio evangelico, le accetta e si interroga: possono i cristiani contribuire a una sana democrazia e a un governo veramente popolare della nostra Italia? E come? In un tempo in cui il bisogno di partecipazione si sta esprimendo in forme e modi nuovi, non è possibile tornare all’“usato garantito” o alle retoriche già sentite. Non basta più neanche un’unica tradizione politica a risolvere i problemi del Paese. Se dal Vangelo non si possono dedurre ricette politico-sociali, è chiaro però che il Vangelo stesso giudica queste ricette. E svela l’“idolatria” di chi lo strumentalizza».

È un processo drammatico, in cui si assiste a un mutamento culturale e politico molto accentuato: la paura viene prima di tutto. Oggi si direbbe laicamente che si assiste a una perdita fondamentale di empatia.
«Si potrebbe parlare in questo caso di una “colonizzazione ideologica”, per prendere in prestito una espressione del pontefice. Una cultura politica che corrobora la paura come reazione primaria all’apparire dell’altro, al punto che vengono soppiantati l’amore e la pietà, ribaltando il messaggio evangelico, che cosa sarebbe se non colonizzazione ideologica?
Una colonizzazione di intelligenza e cuore che ci porta - tra l’altro - a vedere in un pover’uomo affogato innanzitutto un potenziale nemico invasore. Questa è colonizzazione ideologica della nostra umanità. Possiamo dunque considerare i sovranismi come un momento di diffusione di un assoggettamento culturale, che colpisce il corpo emotivo degli individui e delle comunità. Una cultura della diffidenza come prospettiva privilegiata sul mondo ha esiti drammatici».

«Quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze», si legge in Matteo. È molto dibattuta in questo periodo l’idea che non sia possibile un nuovo avvento al governo delle élite, se le élite non si ridiscutono. Non a caso celebrando la figura del politico democristiano Giorgio La Pira (che teorizzò il «lievitare la società umana, così da recare alle creature il dono di una elevazione spirituale e materiale insieme»), lo scorso novembre Francesco ha parlato di «un momento in cui la complessità della vita politica italiana e internazionale necessita di fedeli laici e di statisti di alto spessore umano e cristiano».

È giunta l’ora di intervenire nella formazione di persone che possano diventare punti di riferimento in questa prospettiva?

«Assolutamente sì. Bisogna investire in formazione. Tuttavia non basta più formare i giardini delle élite e discutere al caldo dei “caminetti” degli illuminati. Non sono più sufficienti le accolite di anime belle: la gente è altrove. Il grande rischio è quello di immaginare il popolo in forma di massa anonima. La verità è che molte persone si avvicinano ai partiti populisti o alle sette fondamentaliste perché si sentono lasciate indietro. Ecco il motivo per cui la questione centrale oggi è quella della democrazia. E la democrazia esige rappresentanti, capaci di ascoltare i movimenti del mondo reale e di tradurli in azioni politiche. La formazione è più che mai necessaria».

Rappresentanti del governo, che indossano uniformi delle forze armate, si fanno fotografare in chiesa mentre accendono candele. C’è un utilizzo ambiguo del simbolo della croce da parte dei politici. Al di là del dibattito interno al mondo cattolico, in che stato versano i rapporti con le parti politiche attualmente operanti in Italia?

«Dopo anni in cui forse abbiamo dato per scontato il rapporto tra Chiesa e popolo, constatiamo invece che il messaggio di Cristo resta talvolta uno scandalo. Sentimenti di paura, diffidenza e persino odio - del tutto alieni dalla coscienza cristiana - hanno preso forma tra la nostra gente e si sono espressi nei social network o nel broadcasting personale di questo o di quel leader politico, finendo per inquinare il senso estetico ed etico del nostro popolo. Il fenomeno non riguarda solamente l’Italia. A questo si aggiunga il fatto che il potere politico oggi esprime anche ambizioni teologiche. Pure il crocifisso è usato come segno dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto al passato: se prima si dava a Dio ciò che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quel che è di Dio, a volte pure con la complicità dei chierici. Il nemico non è dunque più soltanto la secolarizzazione, come spesso abbiamo detto, ma è la paura, l’ostilità, il sentirsi minacciati, la frattura dei legami sociali e la perdita del senso di fratellanza umana e di solidarietà. Nella società sta venendo meno la fiducia. Risuonano su questa situazione confusa le parole che il Papa ha rivolto alla Chiesa italiana, che sia “libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa”».

Maestri più o meno cattivi, di segno sovranista o addirittura suprematista, sembrano impadronirsi del messaggio cristiano, per volgerlo a proprio favore. Questa appropriazione indebita coinvolge la junta Trump, con il suo ex ideologo Bannon, tanto quanto i rappresentanti delle democrazie cosiddette illiberali in Europa. Una visione manichea, in cui certa disumanità cerca una giustificazione di carattere teologico, come pretesto fuori contesto.

« La Civiltà Cattolica, la rivista che dirigo, aveva messo in guardia da Bannon già nel luglio del 2017. Scrivevo che la dottrina di questo suprematismo religioso sostiene la necessità teocratica di sottomettere lo Stato alla Bibbia, il che è una logica non distante da quella che muove il fondamentalismo islamico. Il pontefice ha raccomandato la ricostruzione dei legami per favorire “l’amicizia sociale”. Compito della Chiesa italiana è “dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune”. Bisogna fuggire l’opzione tombale, cioè l’eresia che le nostre comunità non abbiano più nulla da dire nel fermento della nostra società. Quale deve essere, allora, il senso di questa risposta? Possiamo riconoscerlo nel discorso di fine 2018 del presidente Mattarella, che ha affermato l’importanza dell’impegno “per riconoscersi come una comunità di vita”, che ha un “comune destino”. Sentirsi comunità significa “pensarsi dentro un futuro comune, da costruire insieme”. D’altronde la forza della Chiesa cattolica in politica è appunto la sua cattolicità, cioè la sua capacità di ricordare l’universalità e di tenere i pezzi insieme lì dove tutto sembra andare in frantumi».

Tra pochi mesi si terranno le elezioni europee. Ci si lamenta che l’istituzione continentale manchi di anima e offra di se stessa l’immagine fredda di un avamposto tecnocratico, distante dalle esigenze e dalle culture dei cittadini. Benedetto XVI insistette nel 2008 sulla necessità di ribadirne l’identità cristiana, per evitare ciò che il suo predecessore aveva definito «un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità». Ci si chiede cosa sia l’Europa oggi.
«Sarebbe un errore considerare l’attuale Unione europea come una realtà compiuta: è necessario comprendere che essa è un processo in divenire. La costruzione dell’Unione è stata un fattore importante nella pacificazione del continente, ma resta ancora molto da fare perché vi cresca una società più pacifica e soprattutto più giusta. Interrompere o mettere in questione il processo europeo significa evocare spettri che avevamo messo a tacere. I cristiani in Europa non possono ritirarsi di fronte al compimento delle loro responsabilità storiche nei confronti del futuro dell’Unione. L’Europa ha bisogno ora di cittadini e non solamente di abitanti. È unione di popoli e non solamente di istituzioni».

Ripensando all’enfasi sulla comunicazione della Chiesa postconciliare, c’è da rilevare che oggi è esattamente il momento comunicativo a esprimere caoticamente il disagio, la solitudine degli individui, l’incattivimento del conformismo e l’intossicazione di qualunque dialogo pubblico.
«La democrazia rappresentativa parlamentare non è destinata a estinguersi, ma la domanda di una “democrazia immediata”, della quale si immagina che il digitale possa essere luogo di azione e strumento, sembra averla messa in difficoltà. Qui c’è un problema, ma sarebbe miope non vedere che c’è pure una grande sfida da accogliere. E questo perché non possiamo certo far finta che la rete non esista. E dunque dobbiamo prendere atto che il consenso si forma anche nell’ambiente digitale. Il problema è che il disagio si esprime soprattutto lì, senza diventare forza di cambiamento reale. E a volte il disagio e la paura diventa ghiotta preda del consenso. Bisogna impegnarsi, pensare radicalmente a come rendere la rete una forma di partecipazione democratica, senza cadere in scorciatoie demagogiche. È un interrogativo aperto.

m.espresso.repubblica.it/plus/artic…0205103505

m.espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/0...