Colombia: la riflessione di un testimone | La Civiltà Cattolica

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Colombia: la riflessione di un testimone

Francisco de Roux

Quaderno 3994 - 2016 - Vol IV

Pubblichiamo un estratto dell’articolo.

Esso aiuta a comprendere la situazione colombiana fino alla vigilia della firma degli accordi di pace tra il Governo e le Farc, avvenuta il 30 novembre 2016.

Il testo richiama l’attenzione sul dramma del conflitto armato, sulla difficoltà per superarlo, e propone una ricostruzione del processo di pace. Infine presenta il ruolo della Chiesa nella delicata situazione: una leadership etica a livello nazionale su cui si concentrano le attese e le speranze dei colombiani.

L’autore è un testimone che ha vissuto per 15 anni la guerra, nel periodo più violento e in un territorio dove si è registrato il maggior numero di vittime, e ha partecipato ai vari tentativi di pacificazione.

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Il problema di fondo

Spiegare la complessa e dolorosa realtà colombiana non è facile. La Colombia è un Paese di 50 milioni di abitanti, di cui i battezzati cattolici sono l’80%; da ottant’anni ha un’economia stabile, nonostante il conflitto armato interno, ed è il secondo Paese del mondo per numero di ecosistemi. Purtroppo, con 8 milioni di vittime ufficialmente riconosciute dallo Stato, è intrappolata in una crisi umanitaria profondissima, fatta di annientamento delle persone, di paure e divisioni apparentemente inconciliabili tra cittadini che, paradossalmente, hanno la stessa tradizione religiosa e si emozionano insieme attraverso le loro diverse espressioni culturali. Si tratta di una crisi spirituale, non religiosa, che attraversa tutta la società e che intacca le relazioni sociali, la cultura, il modo in cui vengono vissuti la fede cristiana, la politica, l’economia e i media. Questa crisi si esprime in orientamenti radicali tra i gruppi dirigenti e ha ripercussioni deleterie nella periferia contadina e popolare del Paese, dove i vuoti istituzionali non riescono a contenere entro i confini della legge rivalità sociali legate ai grandi conflitti irrisolti.

Il contesto del processo di pace

Negli ultimi due mesi la polarizzazione in Colombia si è fatta evidente nel dibattito sul testo degli accordi dell’Avana, perché il Presidente ha deciso di sottoporre a referendum l’approvazione del processo, anche se avrebbe avuto tutta l’autorità per firmare l’accordo di pace. Pertanto la Corte costituzionale ha ordinato che il testo fosse diffuso pubblicamente. Esso consta di 290 pagine, che riassumono quattro anni di discussioni rigorose e due anni precedenti di preparazione in segreto. Eccone una rapida presentazione.

Le Forze armate rivoluzionarie della Colombia-Esercito del Popolo, di ispirazione marxista, hanno combattuto lo Stato per 52 anni. Accanto a loro, sin dall’inizio, c’era l’Esercito di liberazione nazionale (Eln), segnato fin dalle origini dalla rivoluzione cubana e da ideali cristiani di giustizia. Entrambe le formazioni guerrigliere hanno provocato notevoli sofferenze in Colombia, in una guerra inutile. Sono sorte alla metà del secolo scorso, dopo un periodo di violenza politica, in cui decine di migliaia di contadini furono uccisi; le loro lotte si sono concluse con un patto, in cui il Partito conservatore e il Partito liberale si sono accordati per alternarsi al potere per decenni. Così, in quel momento è tornata la calma nel Paese, ma il patto ha lasciato fuori i movimenti sociali e i gruppi politici che rappresentavano i diritti delle masse popolari e contadine escluse dalla società. L’indignazione per questa esclusione, accompagnata dal grido per l’ingiustizia dell’espropriazione dei terreni e ispirata dall’ideologia socialista degli anni Sessanta, ha provocato un’insurrezione generale. Quando, un decennio più tardi, ha preso piede il traffico di droga, la guerriglia ha trovato nella produzione di pasta di coca un modo efficace per finanziare la guerra per la conquista del potere.

In opposizione alla crescita della guerriglia, sono nate le organizzazioni Convivir, composte da civili armati, sostenute dal Governo e finanziate da imprenditori agricoli e grandi proprietari terrieri che erano minacciati di estorsione e sequestro di persona. Le Convivir si sono poi trasformate in milizie paramilitari, per affrontare il conflitto contro i guerriglieri. Questi paramilitari sono stati appoggiati per diversi anni dai comandanti dell’esercito regolare della Colombia. Nello stesso tempo, i grandi narcotrafficanti, desiderosi di evitare l’estradizione verso gli Stati Uniti e volendo legittimarsi davanti alla società come nemici della guerriglia, hanno investito molte risorse sia nel potenziamento dei gruppi paramilitari già esistenti, sia nella formazione di proprie milizie di autodifesa.

In tal modo è scoppiata la guerra per i territori, che ha costretto milioni di contadini a fuggire e che ha avuto il suo periodo di massimo terrore tra gli anni Novanta e il 2006, quando le trattative tra l’allora presidente Uribe e i paramilitari sono culminate negli accordi di El Ralito. Questi non sono stati accordi con oppositori politici, ma con i signori della droga, che avevano acquistato o creato milizie irregolari per combattere per i campi di coca e per accreditarsi davanti al Paese come avversari della rivoluzione marxista.

Questo intenso conflitto armato si è svolto in uno scenario di assenza delle istituzioni nelle zone rurali della periferia, cosicché, mentre nelle grandi città della Colombia le istituzioni funzionavano regolarmente, nelle immense aree rurali la politica è stata dominata da paramilitari, mafia e guerriglia, e l’unica presenza evidente dello Stato centrale erano le forze armate, che agivano con la sproporzione di forze tipica del tempo di guerra. Paradossalmente e drammaticamente, le zone di conflitto armato erano quelle più ricche di giacimenti petroliferi, acque, foreste, terre fertili e metalli.

Mentre si estendeva il potere dei guerriglieri e dei paramilitari, la Colombia ha cercato una soluzione negoziata del conflitto, molto prima del processo avviato dal presidente Santos, in una serie di tentativi che hanno coinvolto altri sei presidenti. Nel 1984 Belisario Betancur, conservatore, riuscì a concludere con le Farc un accordo, che diede origine all’Unione Patriottica (Up), partito politico in cui confluirono molti leader di sinistra. Come conseguenza, diversi guerriglieri delle Farc che avevano deposto le armi entrarono a far parte del Parlamento colombiano, senza sentire la necessità di riformare le istituzioni.

L’Up ha avuto un tragico destino, perché fino al 1990 più di duemila dei suoi membri sono stati uccisi dall’estrema destra. Il presidente Barco ha proseguito i negoziati avviati da Belisario, e il suo impegno ha preparato il terreno perché il presidente César Gaviria approvasse la nuova Costituzione del 1991, alla cui elaborazione hanno partecipato membri di tre formazioni guerrigliere smobilitate dopo processi di dialogo: il gruppo guerrigliero M-19, l’Esercito popolare di liberazione (Epl) e il Movimento armato Quintín Lame. Poi c’è stata la presidenza di Ernesto Samper, che ha proseguito i negoziati e il cui ministro dell’Agricoltura, José Antonio Ocampo, economista della Banca mondiale e delle Nazioni Unite, ha sviluppato il progetto che è alla base dell’accordo rurale nelle trattative con le Farc.

Il processo di pace dell’Avana non sarebbe stato possibile senza il Plan Colombia, grazie al quale il presidente Pastrana, che peraltro ha fallito nelle trattative di pace, ha dotato l’esercito dei mezzi per confrontarsi con le Farc-Ep. Infine, è chiaro che i negoziati con le Farc non si sarebbero potuti svolgere senza il presidente Uribe, il quale, con Juan Manuel Santos come ministro della Difesa, ha colpito al cuore i capi della rivolta, ha allontanato le Farc-Ep dai dintorni delle città, relegandoli nelle regioni agricole e nelle zone di confine con Venezuela, Ecuador e Brasile.

Secondo alcuni osservatori, i negoziati con le Farc-Ep a Cuba non venivano avviati perché il presidente Santos aveva rinnegato la politica di sicurezza nazionale dell’ex presidente Uribe. Sono cominciati perché l’esercito e il Governo, naturalmente sotto l’impulso del Presidente, all’inizio del mandato di Santos, hanno capito che era giunto il momento di sedersi a un tavolo con le Farc-Ep. Per queste ultime, decimate dalle forze armate regolari, era chiaro che ormai non avrebbero potuto raggiungere il potere né partecipare alla politica per mezzo delle armi, anche se militarmente non erano state del tutto sconfitte. Questo è il processo storico che ha dato origine ai colloqui dell’Avana.

Le vittime e l’evidenza del problema di fondo

I negoziati dell’Avana sono iniziati senza tener conto del problema profondo e fondamentale che investiva il Paese. Le Farc, che avevano accettato i sei punti dell’agenda (i contadini, il narcotraffico, la partecipazione politica, le vittime, la sicurezza degli ex combattenti e l’attuazione degli accordi), inseguivano sin dal principio cambiamenti strutturali che, ai loro occhi, giustificavano l’insurrezione. Prima di deporre le armi, chiedevano un diverso sistema economico, una riforma agraria radicale, la trasformazione dell’esercito e del sistema politico e, soprattutto, una nuova Costituzione. Il Governo, da parte sua, sedeva al tavolo dei negoziati intenzionato a difendere l’agenda pattuita e con l’obiettivo di incorporare la parte accettabile delle richieste dei guerriglieri, oltre le richieste della società alle Farc, all’interno dello Stato di diritto istituzionale.

Nel dialogo polarizzato e complesso, molte questioni sono state lasciate in sospeso in quello che all’Avana è stato chiamato «il congelatore». Si tratta di situazioni per le quali non si riusciva a trovare nessun accordo. Tutte avevano a che fare con i grandi problemi strutturali mai risolti e che fanno della Colombia uno dei Paesi dove maggiore è l’esclusione sociale, dove maggiormente diffusa è l’impunità e dove si devasta di più la natura, nonché uno dei grandi produttori mondiali della pasta di coca.

In questa situazione, dopo due anni di colloqui in cui andavano aumentando i temi «congelati», sono arrivate all’Avana le vittime, in un’azione in cui la Chiesa cattolica ha svolto un ruolo importantissimo sia nella selezione sia, soprattutto, nell’accompagnamento dei sopravvissuti, che hanno portato la loro testimonianza sulla barbarie subita da milioni di famiglie in Colombia.

Le vittime arrivate all’Avana erano uomini e donne coraggiosi, che hanno trasformato i negoziati di pace, focalizzando il problema principale. Lo hanno fatto dimostrando ai negoziatori governativi (civili e militari) e a quelli delle Farc-Ep che, prima ancora dei gravi problemi strutturali legati alla distribuzione della terra e alla corruzione, andava affrontata una questione più grave e radicale, altrimenti l’intera costruzione si sarebbe fondata su sabbie mobili.

Questi sopravvissuti, donne e uomini, hanno fatto capire che il problema di fondo del Paese è stato, e continua a essere, l’incapacità di riconoscerci tutti come persone di pari valore e dignità. Lo hanno fatto con la testimonianza del dolore per i propri cari uccisi, le mutilazioni causate dalle mine, le donne violentate, i villaggi interi soggiogati con il terrore, i bambini utilizzati per uccidere, le bombe in città e in campagna, le sparizioni forzate, i sequestri e le esecuzioni extragiudiziali di prigionieri. Hanno messo così in evidenza la nostra capacità di autodistruggerci, fino ad arrivare a oltre otto milioni di vittime dello stesso sangue e della stessa carne, che gridano al mondo ciò che siamo noi colombiani.

Poiché ero presente all’Avana, per aiutare mons. Luis Augusto Castro e p. Darío Echeverry nell’accompagnamento delle vittime, posso indicare i tre tipi di testimonianza che hanno avuto il maggiore impatto: i rapimenti nella foresta, perpetrati soprattutto dalla guerriglia, che sono stati più di 20.000 e che in alcuni casi estremi sono durati anche 14 anni; i «falsi positivi», di cui sono responsabili uomini dell’esercito colombiano, che hanno arrestato centinaia di giovani innocenti nelle campagne e nei quartieri popolari, li hanno condotti in montagna e li hanno assassinati, per poi presentarli come guerriglieri uccisi in combattimento, al fine di ottenere riconoscimenti militari; infine, i massacri avvenuti quando le varie fazioni hanno attaccato villaggi dove vivevano solo persone innocenti.

Una delle giustificazioni per i massacri si basava sulla teoria della «guerra giusta». Ne ho sentito parlare da un professore che accompagnava il mafioso paramilitare italo-colombiano Salvatore Mancuso, quando l’ho incontrato, nel febbraio 2002, per chiedere rispetto per le comunità. Essi sapevano che le Farc-Ep avevano 20.000 uomini che si mescolavano tra la gente dei villaggi amici; così, per essere sicuri di uccidere un guerrigliero, i paramilitari, quando arrivavano in un villaggio, dovevano uccidere 20 persone. Pertanto decisero di uccidere 400.000 persone per sconfiggere definitivamente le Farc. Se non lo avessero fatto, sostenevano, in Colombia si sarebbe scatenata una guerra civile in cui sarebbero morte 5 milioni di persone.

Pertanto, evitando la guerra civile, si sarebbe evitata — in nome di Dio — la morte di 4,6 milioni di persone. Questa era la «guerra etica». E si sono messi ad attuarla. In Colombia ci sono stati 1.906 massacri, 1.116 dei quali sono stati compiuti dai paramilitari; i guerriglieri ne hanno effettuati più di 300, e l’esercito più di 200; gli altri sono stati compiuti da attori non identificati. I massacri hanno significato la degradazione totale della guerra. Con essi il conflitto colombiano si è trasformato in un inferno.

Le vittime giunte all’Avana hanno avuto il coraggio di andare oltre la testimonianza del dolore. Tutte, in vario modo, hanno concluso il loro intervento con un messaggio di pace e di speranza, come a dire che noi colombiani siamo anche in grado di uscire dalla situazione di distruzione umana in cui ci troviamo, di tornare a credere in noi stessi, per riconciliarci, perdonarci e ricostruire insieme.

È stato grazie a queste testimonianze, alla generosità e alla grandezza dei sopravvissuti, che i negoziatori dell’Avana hanno preso coscienza del problema fondamentale e lo hanno affrontato. Non lo hanno fatto come semplici avversari politici, ma come veri e propri nemici, perché le trattative hanno raggiunto il massimo del rigore e dell’efficacia quando si sono trovati faccia a faccia i capi militari dell’esercito e quelli della guerriglia. A questo punto si è avviata la soluzione della più grave delle fratture strutturali del Paese: quella di noi colombiani, distrutti interiormente come esseri umani. E questi nemici militari, che si erano combattuti sui campi di battaglia, hanno raggiunto un risultato eccezionale, sostenendo che occorre fermare l’odio che ci ha portato a ucciderci, decidere di non provocare più vittime, di non ripetere più la barbarie e di non fare più la guerra.

Da quel momento tutti gli accordi che erano già stati delineati all’Avana sono stati riconsiderati, per collocare al centro l’essere umano. È stata creata la Commissione per la verità e l’accertamento delle responsabilità, formata da undici persone di elevata e riconosciuta autorità morale, con il compito di percorrere tutte le regioni dove si è combattuta la guerra, perché il Paese conoscesse i fatti raccapriccianti raccontati dalle vittime, e i responsabili potessero chiedere perdono. È stata anche istituita la Commissione di riconsegna di tutti i desaparecidos, per cercare coloro che ancora erano sotto sequesto o coinvolti in gruppi armati illegali, oppure per far avere alle famiglie, grazie ai test del Dna, i resti di quel figlio o di quella figlia scomparsi e mai più tornati a casa. Poi la Commissione delle donne, per far valere i diritti delle prime vittime della guerra e garantire la tutela di chi, per la propria identità di genere, è stato oggetto di «pulizia sociale». È stata anche decisa l’attuazione di una «giustizia transizionale», per assicurare a tutti la verità, la riparazione, la non ripetizione e la non impunità attraverso il giudizio di tribunali speciali, le cui sentenze sono controllate dalle corti internazionali.

Grazie a questa scelta di mettere al centro l’essere umano, l’esercito e la polizia hanno assunto in modo responsabile il compito di essere custodi, in un Paese riconciliato, dei guerriglieri che erano stati i loro nemici. Perciò si è deciso di dare la priorità alle vittime nella distribuzione di vari ettari di terreno agricolo e sono stati fatti accordi per proteggere le organizzazioni escluse. Quindi si è dato vita a una circoscrizione elettorale speciale che porta al Congresso leader delle comunità sottoposte al terrore e al silenzio. Così i temi rimasti «congelati» non sono stati abbandonati, ma si è convenuto di affrontarli gradualmente nella normale contesa politica democratica. […]

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