L’Africa inventata - L'Osservatore Romano

L’Africa merita grande rispetto. Per molti secoli, infatti, questo continente è stato descritto dai colonizzatori come una sconfinata terra sine historia.

Sin dai tempi delle prime esplorazioni, le leggende di popoli selvaggi e primitivi, addirittura privi di anima, sono state predominanti nella narrazione portata avanti da avventurieri, navigatori e soldati di ventura.

A dire il vero, una certa mentalità si radicò anche nella cristianità. Quando si aprì il Concilio Vaticano I , San Daniele Comboni, come teologo del vescovo di Verona, monsignor Luigi di Canossa, scrisse un’infuocata lettera ai padri conciliari, lamentando che nell’assise non vi fosse alcun vescovo nero. Con foga egli scandì queste parole, ponendo un interrogativo a cui occorreva dare risposta: «C’è qualcuno tra voi che faccia da padre per i Neri, una voce che faccia da interprete per i tanti figli di Cam? Ditelo voi, Eccellentissimi Padri…».

Circolava, infatti, in certi ambienti teologici del tempo, la tesi che legava la schiavitù degli africani subsahariani alla cosiddetta “maledizione di Cam”. Sorta già nei primi secoli dell’era volgare, sia in ambito ebraico che cristiano, e in seguito ripresa anche dalla tradizione islamica, questa teoria si reggeva su una citazione biblica — Genesi 9,18-27 — in cui si legge che il patriarca Noè, irrispettosamente deriso per la sua nudità dal terzo figlio Cam, aveva maledetto quest’ultimo con tutta la sua discendenza (in particolare Canaan, considerato progenitore delle genti africane). Da qui la convinzione, che conobbe grande fortuna anche tra XVIII e XIX secolo, di una presunta “razza maledetta”, condannata ad avere un colore della pelle scuro e uno stato di schiavitù. Non v’è dubbio che questa esegesi, in netto contrasto con il dettato evangelico, divenne, per alcuni, il pretesto per legittimare gli ignobili traffici di esseri umani a scapito dei popoli africani. Benché mai adottata dal magistero cattolico, questa presunta “maledizione di Cam” andò di fatto a irrobustire i pregiudizi di natura razziale nei confronti delle popolazioni afro, precludendo il loro accesso negli ambienti intellettuali e accademici del tempo. Il retroscena della decisa presa di posizione del Comboni in favore di quella che egli definiva con affetto paterno «infelice Nigrizia» è ben descritto da lui stesso in una Relazione alla società di Colonia del 6 giugno 1871 (Gli Scritti, 1543-1546): «Il pensiero di una miseria umana così immane, che pesa sulla mia cara Nigrizia, mi toglie in molte notti il sonno ed al mattino mi alzo più stanco che non fossi stato alla sera, dopo una giornata di intenso lavoro. E in queste notti lunghe e piene d’affanno, prima che me n’avveda, la mia fantasia corre alle riarse terre dell’Africa Centrale… Una notte, in cui immerso in tali pensieri, ero appena tornato dal letto di morte di un povero uomo… come un lampo colpì il mio spirito il pensiero di approfittare del Santo Concilio Ecumenico e di presentarmi a tutti i vescovi del mondo cattolico, raccolti intorno alla tomba di San Pietro per conferire col Vicario di Gesù Cristo sui più importanti interessi della Chiesa cattolica e sulla sua influenza su tutto il mondo. Per qualche tempo questo piano lo portai meco nel mio spirito. Poi pregai e feci pregare… Dopo aver consultato a lungo i miei colleghi di missione e dopo un maturissimo esame, risolvetti di partire per Roma, dove, via Messina, arrivai il 15 marzo, mio genetliaco…Avuti frequenti colloqui coi più insigni Prelati del Concilio ecumenico, soprattutto col Cardinale Barnabò, fui invitato a compilare un Postulatum pro nigris Africae Centralis, che doveva essere fornito delle qualità necessarie per poter essere preso poi in considerazione dall’assemblea conciliare… Così per un singolare aiuto della grazia divina e con una fatica che non si può dire, riuscii a sottoporlo alla Commissione».

Il 3 gennaio 1870 venne letta questa proposizione, contenuta nel Postulatum: «Noi condanniamo in particolare la stolta opinione di coloro che non temono di asserire che i negri non fanno parte della famiglia umana e che non sono dotati di anima umana». Il documento venne firmato da 71 vescovi e presentato a Papa Pio IX dal segretario della Commissione per i postulati, monsignor Alessandro Franchi. Il Pontefice lo sottoscrisse stabilendo che fosse preso in considerazione dai padri conciliari nella sezione de Missionibus apostolicis (sulle Missioni Apostoliche). Purtroppo, a seguito della Breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870, venne meno la possibilità di discuterne a causa della sospensione sine die del concilio. Tuttavia, il fatto che Pio IX avesse accettato il Postulatum, rappresentò un risultato importante che contrastava decisamente un pensiero antievangelico. Come osserva Antonio Sicari, la negazione dell’esistenza dell’anima nelle popolazioni africane era emersa nel dibattito conciliare: «Si discuteva il documento sulla fede cattolica e un vescovo del sud degli Stati Uniti chiedeva che questa “condanna” fosse inserita nel testo in discussione, dato che in America circolavano ancora dei libri in cui si insegnava che i negri sono collocati su un gradino della natura a metà strada tra la bestia e l’uomo». (Il Quinto libro dei ritratti di Santi, Jaca Book, Milano 2010).

Il Comboni si spense a Khartoum, in Sudan, nel 1881 a soli 50 anni, segnato dalla croce e dalle malattie. Purtroppo dopo di lui continuò a serpeggiare nel mondo occidentale la convinzione che gli africani fossero niente più che soggetti passivi rispetto al fluire della storia umana. Un pensiero, espressione di un razzismo pseudoscientifico che trovò nelle teorie darwiniane il fondamento della subordinazione afro rispetto ai popoli europei. Ne scaturì un’antropologia studiata ad arte dai colonizzatori per sottomettere milioni e milioni di africani. A questo proposito è illuminante la riflessione di due grandi intellettuali africani: lo storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo e il filosofo congolese Valentin-Yves Mudimbe. Il primo, deceduto nel 2006, è stato autore della celebre opera Histoire de l’Afrique noire. D’hier à demain (Hatier, Paris 1972), una delle prime a mostrare il vero volto di un continente anni luce distante dall’immaginario occidentale. Egli ebbe il merito di contrastare scientificamente gli stereotipi promossi dalla storiografia delle grandi potenze colonizzatrici. Le civiltà dei primordi, gli antichi imperi e le culture millenarie africane sono riemerse nella sua narrazione manifestando i loro antichi splendori, così smentendo la grande menzogna perpetrata dall’uomo bianco e così riaffermando l’importanza dell’Africa in quanto prima «culla della civiltà umana». Per dirla con le parole dello stesso Ki-Zerbo: «L’Europa della colonizzazione ha il dovere di restituire all’Africa quello che ha rubato: soprattutto la sua cultura, le sue tradizioni, la sua storia, oltre che le sue risorse». Mudimbe, dal canto suo, ha rincarato la dose ricordando come attraverso la biblioteca coloniale si sia costruita una produzione antropologica, infarcita di razzismo, dell’identità africana.

Nel suo saggio The Invention of Africa: Gnosis, Philosophy, and the Order of Knowledge (Indiana University Press, 1988) egli, da grande filosofo ed epistemologo di fama internazionale, stigmatizza la produzione antropologica occidentale ispirata dall’ideale di una presunta missione civilizzatrice. I colonizzatori occidentali hanno condizionato così non solo la percezione del resto del mondo sull’Africa, ma anche la comprensione che gli africani hanno di se stessi. Focalizzando l’attenzione sul rapporto fra Occidente ed Africa, Mudimbe mette drammaticamente in risalto lo scollamento tra la realtà del continente africano e il processo di costruzione/mistificazione della sua immagine in Occidente, al punto da parlare di Africa «inventata».

Un’invenzione che, paradossalmente, si è andata costruendo in modo sempre più articolato a mano e mano che la colonizzazione del continente andava progredendo. L’antropologia divenne così la disciplina chiave, lo strumento dei governi coloniali per conoscere e dominare «our natives». Ecco che allora le popolazioni vennero classificate in modo algido: alcune come emancipate (intelligenti), altre come primitive (infantili), altre come selvagge (aggressive). Una riflessione su queste tipizzazioni può aprire la strada a una necessaria riflessione sul presente.

Molte di queste rappresentazioni si sono infatti cristallizzate nell’immaginario collettivo occidentale, complice anche la quasi totale assenza di copertura mediatica, se non quella legata ad emergenze naturali o umanitarie. Esigenza tanto più pressante ora che l’incontro con l’altro avviene quotidianamente sulle coste del Vecchio Continente. D’altronde è stato ampiamente dimostrato non solo che l’Africa ha una sua storia, ma dispone di un capitale umano di oltre un miliardo 300 milioni di persone. Un deposito di saperi e culture ancestrali che richiedono al consesso delle nazioni il riconoscimento della globalizzazione dei diritti.

di GIULIO ALBANESE

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