La sfida delle migrazioni intra-africane - L'Osservatore Romano

La sfida delle migrazioni intra-africane - L'Osservatore Romano

La sfida delle migrazioni intra-africane

Le migrazioni sono percepite solitamente come flussi umani dai paesi in via di sviluppo a quelli benestanti. Tuttavia, analizzando le cifre sui migranti africani subsahariani si riscontra che nel loro caso la maggior parte della cosiddetta mobilità umana avviene all’interno del loro continente. Infatti, stando ai dati forniti dall’Africa Center for Strategic Studies, circa l’80 per cento degli africani che vivono all’estero si trova in Africa.

Secondo le Nazioni Unite, il fenomeno è in netta crescita se si considera che nello scorso decennio, quello compreso tra il 2010 e il 2020, i migranti subsahariani in Africa sono aumentati del 40 per cento, raggiungendo i 19 milioni, una cifra questa considerata da molti analisti sottostimata.

I Paesi che fungono da principali poli di attrazione nelle migrazioni intra-africane sono in genere quelli che dispongono di un’economia più forte e diversificata, come il Sud Africa nella regione australe o la Nigeria in quella occidentale. Vi sono però anche Paesi che ospitano chi è fuggito da aree di conflitto, come il caso dell’Uganda che, nella regione nordoccidentale del West Nile, sta tuttora ospitando profughi sud sudanesi. L’Immigration Policy Lab della Stanford University, analizzando le informazioni ricavate da un sondaggio dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) su 88.000 persone intercettate lungo le principali rotte migratorie dell’Africa occidentale, ha rilevato che il 90 per cento degli intervistati ha pianificato di rimanere in Africa.

Nella maggior parte dei Paesi ospitanti, i migranti subsahariani, sui quali intendiamo incentrare la nostra riflessione, sono motivati in gran parte dal desiderio di guadagnarsi da vivere, con l’intento di conseguire un livello di benessere che nel Paese d’origine non avevano. Questo è il motivo per cui 700.000 migranti dello Zimbabwe e 350.000 del Mozambico hanno deciso di trasferirsi in Sud Africa dove i salari sono cinque volte superiori ai rispettivi paesi d’origine. Stesso ragionamento vale per i burkinabé che vivono in Costa d’Avorio dove il reddito pro capite è il doppio che nella loro patria. Sarebbe comunque troppo semplicistico considerare il fattore economico come unica componente della mobilità umana intra-africana. In effetti l’Africa Subsahariana è influenzata da molteplici componenti socio-politico-economiche. Basti pensare alle sfide connesse al cambiamento climatico, inclusa la desertificazione e il moltiplicarsi di fenomeni climatici estremi. Per non parlare delle forti pressioni demografiche che portano alcune sub-regioni ai limiti estremi della sostenibilità, scenari segnati dallo sfruttamento intensivo dei territori, dalla competizione e dalla frammentazione delle comunità, nonché dai processi di urbanizzazione che spesso acuiscono l’esclusione sociale.

A ciò occorre aggiungere gli alti tassi di conflittualità che vengono registrati in alcune regioni come ad esempio, il Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo o il Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia. È solo un elenco parziale di questioni che i paesi più svantaggiati si trovano ad affrontare, con ripercussioni non indifferenti sull’evoluzione delle dinamiche migratorie intra-continentali.

Rimane il fatto che, nonostante gli altalenanti ritmi di integrazione delle diverse comunità economiche sub-regionali, la recente nascita dell’African Continental Free Trade Area (Afcfta) potrebbe a medio e lungo termine rappresentare un’occasione privilegiata, non solo per promuovere e facilitare l’industrializzazione del continente e incentivare gli scambi commerciali, ma incrementare il mercato del lavoro, con risvolti occupazionali ragguardevoli. Almeno sulla carta, l’ Afcfta riguarda un mercato di oltre 1,3 miliardi di persone ed ha un valore di 2,5 trilioni di dollari. Se verrà gestito in modo perspicace, con l’indispensabile sostegno internazionale, potrebbe rilanciare le economie africane anche nell’ambito del Green New Deal tanto caro a Bruxelles.

Secondo l’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development) un aumento dell’1 per cento del numero di migranti in un paese determinerebbe una crescita dello 0,2-0,4 per cento della produzione manifatturiera. In riferimento poi agli indici di produttività, vi sono anche dei casi particolari come quello della Costa d’Avorio dove gli stranieri subsahariani, nonostante rappresentino solo il 10 per cento della popolazione, contribuiscono per circa il 19 per cento del Pil nazionale. In questa prospettiva, la mobilità umana intra-africana, debitamente regolamentata,

La posta in gioco è alta perché, come purtroppo accade in Europa, anche nell’Africa Subsahariana vi sono Paesi che considerano i migranti solo come un problema con cui fare i conti. Ecco che allora le politiche migratorie in alcuni casi diventano stringenti, se non addirittura respingenti; un fenomeno che peraltro si è acuito a dismisura a seguito della pandemia del covid-19 con l’innalzamento del livello di guardia nei confronti degli immigrati clandestini e non.

Una delle sfide, guardando al futuro, dal punto di vista legislativo, riguarda il riconoscimento, da parte dei governi locali dei titoli di studio e delle qualifiche professionali dei migranti, evitando così che tecnici specializzati o diplomati finiscano a vendere per strada frutta e verdura. Bisogna comunque anche riconoscere, come osserva Beth Elise Whitaker della University Of North Carolina che «Non potendo esercitare un diritto di voto, migranti e rifugiati sono obiettivi comodi per politici in cerca di qualcuno cui attribuire le responsabilità di problemi sociali ed economici del paese». Tale retorica, inutile nasconderselo, contribuisce purtroppo a legittimare in alcuni casi un sentimento anti-immigrati tra la popolazione autoctona, fomentando una più ampia xenofobia.

Nonostante l’impennata che è stata registrata in questi anni nella mobilità tra i Paesi vicini, in quest’ultimo decennio, l’Africa è comunque testimone di una grande ondata di migrazioni domestiche, intra-paese, in particolare dalle zone rurali a quelle urbane. Questo tipo di migrazione coinvolge solitamente gli individui più poveri delle società che decidono di trasferirsi nelle piccole, medie e grandi città del loro paese. Come osservano pertinentemente Corrado Fumagalli e Katja Schaefer, in Migration and urbanization in Africa, «la mancanza di servizi di base, di opportunità di lavoro e l’abituale insicurezza nelle aree periferiche hanno spinto molti individui a lasciare le zone rurali per trovare migliori condizioni di vita nelle città. Ma, nonostante le possibilità e i servizi offerti dai centri urbani, i migranti rurali-urbani devono affrontare importanti sfide: a causa delle loro scarse competenze e del loro basso livello di istruzione, non hanno accesso al mercato del lavoro, finendo per essere impiegati nei settori informali».

Una cosa è certa: l’Africa nel suo complesso ha certamente delle quote della popolazione «in movimento», ma gli africani, contrariamente a quanto viene detto e scritto in Europa, non procedono in massa verso il vecchio continente. Questo peraltro è dimostrato dal fatto che addirittura il tasso di emigrazione a livello continentale, stimato attorno al 2 per cento (vale a dire la percentuale degli africani che lascia il proprio Paese d’origine, sul totale della popolazione di appartenenza) è inferiore alla media mondiale del 3,5 per cento.

Aveva dunque proprio ragione il compianto Zygmunt Bauman nell’affermare che «il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di “immigrati illegali” e a dispetto di occasionali ed effimere ondate di orrore e indignazione provocate dalla vista di “emigranti economici” finiti soffocati o annegati nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli».

di GIULIO ALBANESE

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