La psicologia della compassione | La Civiltà Cattolica

Da tempo la ricerca psicologica e la pratica terapeutica incrociano valori propri della tradizione religiosa e spirituale, una volta considerati obsoleti se non addirittura di ostacolo per la salute psichica della persona.

Il percorso successivo ha mostrato anche in questo campo la verità dell’osservazione di Francesco Bacone: «Se una scienza superficiale può allontanare dalla religione, una scienza più approfondita vi può ricondurre».
Su questa rivista, si è avuto modo di constatarlo più volte, affrontando diverse tematiche di confine, come ad esempio i vizi capitali, il senso di colpa, il perdono, la meditazione, il sacrificio, la gratitudine.
La cosiddetta «terza onda» della terapia cognitiva – che ha fatto seguito rispettivamente al comportamentismo e al cognitivismo –, che ha a oggetto gli atteggiamenti alla base delle difficoltà della vita, da circa trent’anni ha avviato un dialogo fruttuoso con la dimensione spirituale e religiosa, mostrandone il valore anche terapeutico. Un servizio prezioso per la stessa pratica religiosa, per la conoscenza di sé e il vissuto esistenziale.
Un esempio di tale fecondo dialogo è lo studio interdisciplinare della compassione.
Un recente libro, frutto del contributo di una équipe di professionisti della salute mentale, coordinata da Tonino Cantelmi (psichiatra e presidente dell’Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici) ed Emiliano Lambiase (psicoterapeuta), ripercorre i molteplici filoni di questo fondamentale atteggiamento, capace non solo di proteggere dalle ferite della vita, ma di rovesciarne la prospettiva, mostrandole come possibili opportunità di crescita e maturazione[1].
Che cos’è la compassione?
Considerata la sua lunga presenza e la molteplicità di possibili significati a essa attribuiti nell’immaginario religioso e non, è forse bene iniziare a chiarire cosa non è la compassione.
Sappiamo infatti come essa sia stata oggetto di critiche a volte spietate, ad esempio in sede filosofica, quando è stata considerata una forma di superiorità ammantata di bontà, un approccio emotivo ai problemi che impedisce di coglierne la complessità, con il rischio di dare valutazioni in base a simpatie e antipatie del tutto soggettive e superficiali[2].
Prendere in considerazione queste obiezioni è importante per precisare le molteplici prospettive con le quali si può esaminare la compassione.
C’è un livello emotivo, importante ma non sufficiente, proprio per le riserve viste sopra: le emozioni non possono infatti essere considerate i criteri di valutazione per le scelte[3]. Esiste tuttavia un livello più complesso, volitivo-razionale, dove la compassione è considerata un valore, perseguito anche contrastando la spinta emotiva; e nel momento in cui il valore viene ripetuto nel tempo, diventa virtù (55-57).
In questa prospettiva, la compassione può essere definita come un processo che coinvolge cognizione, affetti e azioni, caratterizzato da un insieme di elementi fondamentali: è la capacità di riconoscere la sofferenza come parte dell’umanità e della vita, in termini di empatia e ascolto dei possibili sentimenti ostili, senza giudicarli né combatterli, mettendo in atto decisioni ritenute opportune per alleviare la sofferenza (30).
Una definizione che racchiude un insieme di proprietà diversificate, confermando la complessità di questo atteggiamento, antitetico alla rassegnazione o a un approccio flemmatico ai problemi della vita.
Per chiarire meglio la sua effettiva portata, si possono riprendere brevemente questi variegati aspetti.
Riconoscere la sofferenza
È il passo basilare, che rimanda all’etimologia stessa del termine. Compassione in quanto «soffrire-con» (cum-patire) richiede la capacità di riconoscere ciò che prova l’altro, senza giudicarlo. In virtù di tale atteggiamento, è possibile accogliere i sentimenti negativi e «non rotolarsi nella rabbia e nella tristezza, quanto piuttosto usarle per l’azione» (34).
L’accettazione della sofferenza è un passo preliminare indispensabile, perché consente di non restare prigionieri del passato o del futuro; solo concentrandosi sul presente diviene possibile attuare cambiamenti reali, riconoscendo la ricchezza di possibilità a disposizione.
Questo è lo scopo della «Terapia dell’accettazione e dell’impegno» (Acceptance and Commitment Therapy), che rappresenta un ulteriore aiuto alla psicologia della compassione: guardare le possibili fonti della sofferenza senza nasconderla o giudicarsi negativamente è liberante, «permette di avere più energia e libertà mentali per affrontare le difficoltà» (41).
La compassione infatti favorisce la resilienza, la capacità di affrontare situazioni traumatiche senza soccombere.
La resilienza, come si è avuto più volte modo di notare, non è semplicemente legata alla robustezza fisica, ma alle strutture di significato, ai valori presenti nel soggetto e alla qualità delle relazioni.
Le comunità coese sono un magnifico esempio di resilienza, come la storia ha mostrato in occasioni di catastrofi naturali o causate dall’uomo[4].
Sentirsi parte dell’umanità e della vita
Quando si soffre, può affacciarsi il pensiero del confronto, considerando la situazione di disagio come appartenente soltanto a se stessi, ritenendosi indegni o colpevolizzandosi. In realtà, soffermarsi sul proprio disagio è parte del problema che accresce il malessere, portando a quella che viene chiamata «visione tunnel».
Come suggerisce il termine, essa impoverisce l’orizzonte di riferimento e accentua la svalutazione e l’autorimprovero.
La compassione verso di sé favorisce invece il dialogo interiore con la propria parte benevola, capace di accogliere la vita in tutti i suoi aspetti, comprese le difficoltà, la sofferenza e i fallimenti.
Considerare tutto ciò come parte del mondo e dell’umanità facilita l’uscita dall’isolamento rassegnato.
E aiuta a rivedere la propria storia, consentendo una gamma più ampia di letture possibili: «Il nostro background economico e sociale, le nostre relazioni passate, le nostre storie familiari, la nostra genetica hanno avuto un ruolo profondo nel creare la persona che siamo oggi […]; allo scopo di cambiare, il primo passo è riconoscere ciò che dobbiamo accettare in quanto esseri umani, con una storia, un corpo e un contesto di vita ben precisi» (170).
Rileggere la propria situazione nel più generale contesto dell’umanità significa anche riconoscere che la sofferenza o il fallimento che vedo in altri sarebbero potuti accadere anche a me; considerarli parte della comune umanità rende possibile la considerazione del disagio altrui in termini di solidarietà e di scelte volte ad alleviarne la sofferenza. Gli ostacoli alla compassione sono spesso legati all’incapacità di riconoscere questa comune situazione, fino alla negazione dell’umanità dell’altro.
Anche in questo caso occorre fare i conti con una spontaneità che non aiuta. Invece di combattere la sofferenza, è più salutare semplicemente lasciarla essere, senza dare un giudizio, animati dalla curiosità di apprenderne il messaggio.
Un sentimento come la tristezza racchiude in sé insegnamenti molteplici che non appaiono a prima vista[5]. Ciò richiede una pratica di esercizio della consapevolezza. Un aiuto in questo senso è il percorso proposto dalla mindfulness, che tende, attraverso opportuni e graduali passi, a orientare l’attenzione, l’immaginazione e il ragionamento: «Il modo in cui pensiamo, ragioniamo e rimuginiamo può avere un grande impatto sull’iperattivazione del nostro sistema di minacce, oppure nel riuscire a calmarlo. Il pensiero compassionevole è un antidoto a tutto questo perché attiva la capacità di accudirci, soddisfacendo i bisogni di rassicurazione del nostro sistema di attaccamento» (151).
Si tratta di un processo che sfocia nell’azione, perché prendere contatto con la sofferenza è anzitutto un atto di coraggio, quello che nella tradizione etica viene chiamato «la virtù della fortezza». Esercitare la compassione può disturbare il quieto vivere di chi preferisce rassegnarsi alla propria condizione di disagio e non vuole saperne di essere messo in discussione. In questo senso essa è una virtù contestatrice; coraggio e compassione non si sono contrapposti.
Sentirsi parte dell’umanità consente anche di sviluppare una distanza sana, che permette un intervento efficace, senza essere sopraffatti dal dolore altrui.
Le basi biologiche della compassione
Gli studi sulla compassione hanno mostrato la sua dimensione anzitutto biologica. Essa è legata alla capacità di accudimento e attaccamento, rese celebri dalle ricerche di John Bowlby. Secondo questa teoria, le emozioni basilari, nella loro polarità di ansia-tranquillità, si sviluppano in maniera adeguata all’interno della relazione preferenziale con la madre, intesa come figura di riferimento stabile sotto il profilo affettivo: una relazione che passa per il tatto, lo sguardo, il sorriso e la parola. La corretta formazione del legame di attaccamento, quello che Bowlby chiama «attaccamento sicuro»[6], base della fiducia e dell’affettuosa sicurezza, ha conseguenze molto importanti per vivere relazioni equilibrate, all’insegna del dono di sé e della capacità di occuparsi del bene dell’altro. Ma soprattutto è fondamentale per la stessa sopravvivenza del bambino, che richiede in prima istanza di essere accudito con tenerezza[7].
A livello biologico, studi recenti hanno mostrato come atteggiamenti proattivi siano correlati alla presenza di neurotrasmettitori regolatori dell’umore, come l’ossitocina, la vasopressina e la prolattina. Essi possono essere potenziati dalla cura e dall’accudimento e, a loro volta, in una sorta di circolo virtuoso, favoriscono la predisposizione a tali atteggiamenti: «È stato scoperto che la somministrazione di ossitocina alle madri ha aumentato l’attivazione delle reti relative all’empatia. Ha anche ridotto l’attivazione dell’amigdala (un’area del cervello associata a paura, ansia ed evitamento) in risposta al pianto del bambino» (105).
Le ricerche di Bowlby mostrano anche che il bambino, diversamente da quanto riteneva Freud, non cerca la relazione con la madre per ricevere gratificazioni di tipo sessuale o per ottenere nutrimento per sopravvivere: la relazione manifesta un bisogno primario e gratuito, compiuto non in vista di altro. A differenza degli altri animali, l’essere umano presenta un’incompletezza plastica che richiede l’apporto di facoltà molteplici, in particolare la dimensione biologico-corporea, la riflessione, l’autocoscienza.
L’integrazione tra affetto e ragione consente di vivere la compassione come virtù, come si notava sopra, guardandosi dalle derive emotive. Alcune ricerche hanno mostrato che la visione di filmati e il confronto con episodi improntati all’empatia e alla fiducia hanno ricadute rilevabili a livello cognitivo, comportamentale e biologico, come il livello di ossitocina, che influisce in maniera importante sugli affetti (112; cfr 99-114). Questo è il motivo per cui alla compassione sono legati altri aspetti importanti, come la fedeltà e stabilità nelle relazioni e nelle scelte di vita e la capacità di vivere la genitorialità, di essere educatori che aiutano la crescita della persona.
Queste ricerche confermano la dimensione incarnata della compassione, che si traduce anche in benessere fisico, come si è avuto modo di notare a proposito della felicità[8].
I due alleati della compassione: empatia e simpatia
La compassione può essere potenziata da alcuni atteggiamenti proattivi. Il primo di essi è l’empatia, un termine introdotto alla fine del secolo XIX in sede di psicologia scientifica. Essa è la capacità non solo di conoscere il mondo affettivo dell’altro, ma di parteciparvi, di provare i medesimi sentimenti e agire in maniera corrispondente: «Chi empatizza va verso, presso o dentro una cosa o una persona, quasi dovesse rispondere a una sua richiesta, soddisfare una sua pretesa. In questo modo, si lascia penetrare dalle caratteristiche con cui si presenta l’oggetto. Percepisco un volto sorridente e subito avverto che mi viene in qualche modo richiesto di corrispondere a tale contentezza, di atteggiarmi interiormente in modo simile. Esito di questo duplice movimento è il ritrovare se stessi nella cosa o nella persona, il diventare tutt’uno con essa. Il movimento unitivo, il comune sentire, è frutto di un movimento di interiorizzazione, di un far risuonare nell’intimo le qualità dell’altro»[9].
L’empatia consente di comprendere ciò che provano altri esseri e di immedesimarsi nel loro vissuto. È un atteggiamento spontaneo, presente fin dalla più tenera età: i bambini giocano con pupazzi, soldatini e bambole «animandoli», attribuendo loro dei sentimenti. Ogni bambino ha bisogno di un modello cui appoggiarsi e che lo rassicuri, nel corso della crescita e più in generale nel percorso educativo. Si può provare empatia in vari modi, nei confronti della natura (un paesaggio viene avvertito come «triste» o «piacevole»), della cultura (nel rapporto tra il lettore e l’opera), con le persone, ma anche con le macchine, dall’automobile al computer. Non è tuttavia semplice specificare il processo attraverso il quale si giunge a questo «comune sentire con altri»: tale impalpabilità è anche la radice delle obiezioni nei confronti dell’empatia, considerata una modalità superficiale e parziale di relazione[10].
Gli studi compiuti rilevano comunque, analogamente a quanto notato a proposito della compassione, che l’empatia non può essere confinata nella sfera emotiva, perché presuppone la capacità cognitiva di riconoscere l’alterità e i sentimenti suscitati da questo incontro, ponendosi al di là della mera ripetizione di quanto osservato: «Nell’empatia le emozioni di un’altra persona non suscitano più una risposta riflessa, ma una reazione vicaria, poiché vengono correttamente riconosciute e vissute come esterne a sé, cioè come appartenenti a un’altra persona»[11].
A sua volta, la mera conoscenza del vissuto altrui non porta necessariamente a un atteggiamento di questo tipo: si può attingere a questo sapere per motivi molteplici, non necessariamente ispirati all’empatia. Anche il sadico o l’antisociale è in grado di capire cosa sente l’altro, ma può restare indifferente o, peggio, manipolarlo a proprio vantaggio. L’empatia, a partire da quella conoscenza, porta invece alla vicinanza e alla partecipazione, esprimendosi in uno spettro di sentimenti qualitativamente differente, fino alla condivisione e al sacrificio di quanto si ha di più caro. A differenza dell’odio, l’empatia si mostra maggiormente capace di rispettare la complessità delle persone e delle situazioni, perché è in grado di differenziare.
Affine all’empatia è la simpatia; anch’essa è caratterizzata da uno sguardo positivo, accattivante nei confronti dell’altro, che può con più facilità portare alla condivisione del suo orizzonte culturale e valoriale, immedesimandosi con esso[12]. L’empatia tuttavia presenta qualcosa in più della simpatia, perché manifesta, oltre alla comprensione e alla benevolenza, anche la condivisione del vissuto dell’altro. La simpatia è un atteggiamento da coltivare anzitutto nei confronti di se stessi: invece di chiudersi su di sé quando la sofferenza bussa alla propria porta, è più saggio ascoltarla e accoglierla, come si notava.
Una virtù da praticare con l’esercizio
La compassione, se correttamente intesa, richiede di mettere in discussione alcuni stereotipi superficiali e di aprirsi ad atteggiamenti che vanno nella direzione opposta al senso comune. In particolare nei confronti della sofferenza. La salute psicologica richiede di appropriarsi di emozioni problematiche, per poterle gradualmente gestire meglio: «Può sembrare paradossale, ma per essere felici dobbiamo abbracciare l’infelicità: più cerchiamo di sfuggire dal dolore e dalla sofferenza, più cerchiamo di eliminarli dalla nostra vita, più li amplifichiamo» (158 s).
Dall’accettazione, che non è altro che compassione nei confronti di se stessi, emergono nuove energie e stimoli cognitivi, anche se il sentimento rimane il medesimo: è quello che gli Autori chiamano «disperazione creativa». Uno dei suoi frutti più importanti è la flessibilità nella maniera di considerare pensieri e situazioni negativi, non contrapponendosi a essi ma accogliendoli, grazie anche al supporto di valori riconosciuti come centrali e coltivati in maniera consapevole. Come appunto la compassione (cfr 164 s).
Per questo la compassione va soprattutto praticata, rileggendo in questa prospettiva la propria vicenda di vita. A tale scopo, al termine di ogni sezione del libro vengono suggeriti esercizi da compiere sia come momenti di meditazione, sia come verifica di quanto proposto, per interiorizzare questa grande possibilità di vivere in pienezza offerta a ognuno di noi.
La dimensione religiosa
Come si è avuto modo di notare, la consapevolezza di essere parte di una dimensione più grande, considerata in termini di benevolenza, è di grande aiuto per la compassione. Colpisce come molti degli esercizi proposti, e lo stesso valore della compassione, siano presenti nella gran parte delle tradizioni religiose, che le ha proposte in sede spirituale e di scelte di vita. Il cristianesimo annuncia un Dio che non è indifferente alle vicende di ogni uomo, ma si rende vicino condividendo anche gli aspetti più tragici dell’esistenza. Nella Bibbia l’esperienza dell’esodo, fondamentale per il popolo d’Israele, e la redenzione culminante con la morte e risurrezione di Gesù, sono i frutti più belli della compassione di Dio, che vuole farsi conoscere dell’intera umanità.
Il termine ebraico per compassione, rahamim, fa riferimento letteralmente all’utero, ricorda l’amore viscerale della madre per il figlio (in Is 49,13-16 è espresso dal termine rehem, che indica l’utero). Il suo equivalente greco (splanchnizomai) è presente in pagine celebri del Vangelo, come la parabola del figliol prodigo (cfr Lc 15,20), o del re che condona il debito enorme del servo (cfr Mt 18,27), e riflette i sentimenti stessi di Gesù nei confronti dell’umanità debole e sfinita (cfr Mt 9,36). È anche l’atteggiamento che anima coloro che nel nome di Gesù si spendono per gli ultimi, senza che questo sembri apparentemente cambiare la loro condizione, scoprendo invece che anche le situazioni più disperate possono aprirsi a possibilità inedite.
Nel libro si fa riferimento in proposito all’opera – iniziata a Calcutta da madre Teresa – del Nirmal Hriday, l’edificio dove ogni giorno si portano malati terminali e moribondi raccolti agli angoli delle strade, la maggior parte dei quali è destinata in breve a morire. Un lavoro in apparenza inutile e sfibrante, che fa sorgere il dubbio sul senso di tutto ciò. Eppure si resta colpiti dal clima che regna in quel luogo di sofferenza e di morte: «un clima di gioia e di benedizione, come se quegli ambienti fossero davvero visitati ogni giorno da Cristo; le suore e i volontari che prestano il loro servizio tra gli ammalati e i moribondi – secondo le loro testimonianze – ritengono un privilegio il potersi occupare di questi malati sconosciuti per permettere loro di vivere gli ultimi attimi della loro vita un po’ meno soli, e con qualcuno accanto che dimostri loro quell’amore che non hanno mai ricevuto da nessuno in vita. Nemmeno l’odore della morte che spesso aleggia nei cameroni riesce a togliere la pace e la gioia dal cuore di coloro che sono lì per dare conforto e assistenza a quei diseredati» (133 s).

LA PSICOLOGIA DELLA COMPASSIONE

Giovanni Cucci

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