50 anni di Caritas italiana: la carità non si delega

Non c’è probabilmente nessuno in Italia a cui il nome Caritas suoni sconosciuto. Per molti è sinonimo di assistenza verso chi è nel bisogno: i centri di ascolto, le mense, le tende da campo dopo i terremoti, i progetti nei Paesi in via di sviluppo, ecc.; altri lo collegano a esempi di prossimità consapevole e ragionata, come i rapporti che documentano l’evoluzione della povertà o dell’immigrazione, o valutano l’efficacia delle politiche pubbliche.



Questa riconoscibilità è il frutto di un percorso che ha portato la Caritas a rendersi protagonista dell’evoluzione della società e della Chiesa italiane, che nel 2021 raggiunge il traguardo dei cinquant’anni, per cui sono in corso le celebrazioni. Era il 2 luglio 1971 quando, nell’ambito dell’aggiornamento postconciliare, la Conferenza episcopale italiana istituiva la Caritas italiana, l’organismo pastorale che, come recita l’art. 1 del suo Statuto, ha lo scopo di «promuovere, anche in collaborazione con altri organismi, la testimonianza della carità della comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica». Dunque la Caritas non è un ente benefico a ispirazione cattolica, ma un “pezzo” della comunità cristiana di cui non si può fare a meno, perché senza testimonianza della carità non vi è Chiesa. Come Redazione incrociamo spesso la Caritas e il suo lavoro. Le donne e gli uomini che lo compiono ci stimolano a mantenere gli occhi aperti su aspetti della società che altrimenti resterebbero nell’ombra e insieme a loro proviamo a rileggerli, in particolare nelle iniziative di formazione in cui siamo coinvolti, come invitati o come partner, e spesso sulle pagine della Rivista si trova un’eco di questi incontri.



In questa luce, celebrare il cinquantesimo anniversario della Caritas non può esaurirsi nel tessere le lodi di una istituzione particolarmente benemerita. Richiede piuttosto di mettere al centro dell’attenzione la testimonianza della carità che come comunità cristiana siamo chiamati a dare, interrogarci su come renderla sempre «consona ai tempi e ai bisogni», ma soprattutto prendere consapevolezza di come la carità ci pungoli a mettere in discussione le forme del nostro essere Chiesa; proprio su questo punto si focalizza l’imminente percorso sinodale italiano, che si intreccia con quello che papa Francesco ha indetto a livello universale. In questa linea, nelle pagine che seguono proveremo a riflettere, nella prospettiva della testimonianza della carità, su tre dimensioni fondamentali dello stile ecclesiale: la capacità di ascolto, la disponibilità ad accompagnare, la spinta a promuovere inclusione e partecipazione.



Un ascolto che spinge al cambiamento
Il punto di partenza della dinamica della carità, e quindi dell’azione pastorale che punta a incarnarla, non può che essere l’ascolto. Non è certo un caso che la struttura di base della Caritas, quella diffusa a livello più capillare sul territorio, si chiami “centro d’ascolto”.

La capacità di ascoltare è una dimensione fondamentale dello stile che papa Francesco invita tutta la Chiesa ad assumere, e richiede di maturare virtù relazionali specifiche: la disponibilità a fare spazio all’altro, la prontezza nel perdono e la disponibilità a mettersi in gioco secondo una spiritualità di comunione. Proprio la custodia della dimensione dell’ascolto della realtà, in quelle situazioni in cui le contraddizioni si evidenziano nelle loro conseguenze più drammatiche e in cui è possibile registrare i segnali di novità, è un contributo fondamentale della pastorale della carità alla compagine ecclesiale nel suo insieme. Lo stesso ascolto va rivolto all’interno della comunità, registrando ad esempio la fatica di far fronte a bisogni in costante aumento, lo sfilacciamento dell’operatività prodotto dalla pandemia, la difficoltà di rimettersi in moto, così come il disagio nei confronti di una realtà sempre più complessa, nei cui confronti ci si percepisce limitati e impreparati. Anche tutto questo deve essere accolto e riconosciuto.



Da questo duplice ascolto nascono domande fondamentali: come l’atteggiamento del samaritano, che «passa accanto, vede, ha compassione» – il riferimento che papa Francesco propone nell’enciclica Fratelli tutti – può incarnarsi oggi nella comunità cristiana e in ciascuno dei suoi membri? Come risvegliare il dinamismo delle comunità, e in particolare di coloro che più si impegnano nelle diverse attività? La risposta è tutt’altro che evidente, immediata o facile, ma cercarla è parte integrante del dinamismo della carità. Come diceva il card. Martini, «la carità si distende tra il mistero di Dio e la storia degli uomini. Affonda le radici nel mistero e produce frutti sempre nuovi nella storia».



L’ascolto della realtà, sociale ed ecclesiale, e la luce che proviene dalla contemplazione del mistero possono aprire processi di discernimento in vista di scelte concrete. Solo una carità capace di discernimento – una discreta caritas per usare una espressione cardine della spiritualità ignaziana – può mantenere costantemente l’equilibrio tra l’urgenza dell’azione in risposta ai bisogni e la spinta a cercare la maggior efficacia, andando a incidere sulle cause e non solo sui sintomi.



La pedagogia dell’accompagnamento
Come abbiamo visto, lo Statuto della Caritas ne evidenzia la «funzione pedagogica», che deve essere «prevalente» su quella puramente operativa. Oggi pare stimolante provare a interpretare questa indicazione ricorrendo alla categoria dell’accompagnamento, che il Sinodo del 2018 sui giovani ha proposto come sintesi dello stile della Chiesa nel compiere la propria missione. Leggiamo infatti al n. 92 del Documento finale: «Come insegna il racconto dei discepoli di Emmaus, accompagnare richiede la disponibilità a fare insieme un tratto di strada, stabilendo una relazione significativa. L’origine del termine “accompagnare” rinvia al pane spezzato e condiviso (cum pane), con tutta la ricchezza simbolica umana e sacramentale di questo rimando. È dunque la comunità nel suo insieme il soggetto primo dell’accompagnamento, proprio perché nel suo seno si sviluppa quella trama di relazioni che può sostenere la persona nel suo cammino e fornirle punti di riferimento e di orientamento». Pensando all’ambito della testimonianza della carità, si evidenziano tre direttrici su cui si gioca la dimensione dell’accompagnamento.



La prima, a cui viene spontaneo pensare, è quella indicata dall’espressione tecnica di “presa in carico” di coloro che bussano alla porta cercando quel sostegno di cui parla il Sinodo. Nei loro confronti siamo invitati ad agire nella logica dei quattro verbi che papa Francesco ci propone di vivere riguardo ai migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Per farlo servono capacità di ascolto, competenza, finezza di intuito e creatività, in modo da strutturare percorsi che facciano leva sulle capacità delle persone per renderle sempre più autonome: l’accompagnatore lavora per rendersi progressivamente inutile e non per trattenere le persone nella dipendenza. Soprattutto è fondamentale che quanti concretamente portano avanti questo accompagnamento siano consapevoli di farlo in nome della comunità, di cui percepiscono il sostegno e che rendono presente con la loro azione a fianco dei poveri e degli emarginati.



Al sostegno nel cammino personale di crescita nell’autonomia si affianca la seconda direttrice, quella dell’accompagnamento verso il riconoscimento pubblico delle istanze dei più poveri, e quindi della loro dignità di cittadini e della loro capacità di dare un contributo al bene comune attraverso la domanda di giustizia che smaschera la “inequità” delle strutture sociali in cui tutti viviamo. Anche questa forma di accompagnamento deve guardarsi dal rischio del paternalismo; si tratta di fare da cassa di risonanza, non di parlare al loro posto: ai poveri va prestata la voce, non le parole! Un buon esempio è il percorso degli Incontri mondiali dei movimenti popolari: invitandoli per incontrarli, papa Francesco ha favorito il dialogo tra di loro e la formazione di legami e di reti globali. Ma soprattutto ha reso evidente l’esistenza di queste forme di auto-organizzazione dei poveri, accreditandoli come interlocutori nello spazio pubblico.



L’ultima direttrice è l’accompagnamento della comunità all’incontro con i poveri. Nessuna comunità ecclesiale può farne a meno, poiché solo i poveri possono svelare un volto di Cristo che altrimenti resta sconosciuto. Papa Francesco non potrebbe essere più chiaro a riguardo: «Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, n. 198).



Favorire un’azione sociale corale
Un’ultima riflessione parte dalla consapevolezza che la testimonianza della carità si gioca oggi all’interno di un contesto – il settore del welfare o dell’assistenza sociale – in cui sono presenti soggetti sempre più numerosi e differenziati, sia pubblici sia privati, che agiscono sulla base di logiche diverse e non sempre pienamente trasparenti e disinteressate. Anzi, l’aumento del pluralismo e della complessità, insieme alla tendenza alla professionalizzazione e a una regolamentazione sempre più invasiva, è fra i tratti che più distinguono il contesto attuale da quello in cui la Caritas fu fondata, nel 1971. Occorre dunque chiedersi con che stile si vuole abitare questo contesto perché la testimonianza della carità sia limpida. Si tratta di un punto strategico, che non può essere gestito solo in base a considerazioni di efficienza, di convenienza, o, specie nei confronti dell’amministrazione pubblica, di accesso a fonti di finanziamento.



Una Chiesa che sceglie lo stile dell’ascolto lo praticherà a 360 gradi, quindi anche nei confronti degli altri attori impegnati nella tutela dei più deboli. In questo modo scoprirà di abitare un mondo molto ricco, in cui sono numerosi i soggetti con cui costruire alleanze, provare a percorrere insieme un tratto di strada, puntare a un obiettivo comune, mettendo ciascuno a disposizione le proprie risorse. Significa “fare sinodo”, nell’accezione concreta che papa Francesco dà a questo termine, ossia praticare concretamente quella sinodalità missionaria che la teologia postconciliare riconosce come dimensione costitutiva della Chiesa. Questa dinamica risulta tanto più feconda, anche in termini di credibilità, quanto più l’adozione dello stile del dialogo risponde a una opzione di fondo e non a una scelta strumentale o strategica.



Muoversi in questa linea richiede alla Chiesa e alle sue strutture di assumere compiutamente il fatto di essere parte. Vale la pena rileggere il n. 236 di Evangelii gaudium: «Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno poi diventato di moda». Raccogliere il meglio di ciascuno è dunque l’orizzonte dell’azione pastorale, e quindi anche della testimonianza della carità. Si aprono qui domande che nei diversi contesti locali assumono una concretezza specifica: con quali strategie si possono promuovere collaborazioni che riconoscano la diversità di ruoli e, al contempo, la pari dignità tra enti? Quali nuove alleanze tra soggetti diversi, pubblici e privati, profit e no profit, ecclesiali e laici sono possibili e su quali basi sperimentarle? Vale la pena ricordare che l’azione in ambito sociale non è mai uno one man show, ma piuttosto qualcosa di corale, capace di chiamare in causa e valorizzare le capacità e le competenze di molti. Anche il lavoro in équipe fa parte dello stile di una Chiesa sinodale, a cui tra l’altro i giovani sono particolarmente sensibili. Sempre in linea generale, possiamo affermare che operare all’interno di reti plurali, piuttosto che fare da soli, rappresenta un tratto distintivo di una pastorale della carità che si misura con la logica del poliedro: dove non si riesce a mettere in piedi nemmeno un progetto di questo genere, forse è bene prendersi il tempo per un esame di coscienza.



Un punto merita costante vigilanza, per scongiurare il rischio di fenomeni di cattura da parte di attori che perseguono obiettivi di altro genere ed evitare che le alleanze si trasformino in complicità. Non a caso fa parte della missione della Chiesa, e quindi del mandato della Caritas, la denuncia delle situazioni di ingiustizia e lo smascheramento degli interessi a cui esse sono funzionali: tralasciarlo metterebbe a repentaglio la capacità di fare da cassa di risonanza alle istanze dei poveri e degli esclusi. Si tratta allora di coltivare la parresia come atteggiamento di fondo religioso e politico: questa non è l’espressione senza filtri di ciò che si pensa, ma una via etica verso il riconoscimento e la comunicazione della verità, giocata su due livelli: quello interiore (la sincerità verso sé stessi, l’onestà intellettuale e la rettitudine morale) e quello esteriore (la parola aperta e franca). Alla dimensione regale del servizio, la pastorale della carità aggiunge quella profetica della parresia.

Giacomo Costa

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