La giustificazione per mezzo della fede secondo la Lettera ai Galati | La Civiltà Cattolica

di

Albert Vanhoye

Il tema della giustificazione per mezzo della fede può sembrare troppo intellettuale e complicato, ma, secondo l’apostolo Paolo, è d’importanza fondamentale, anzi drammatica. Lo vediamo nella Lettera ai Galati scritta da san Paolo in un momento di grave crisi per le comunità cristiane della Galazia. Lo si intuisce sin dall’indirizzo di questa lettera, giacché san Paolo, invece di presentare se stesso pacatamente come «apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio» (2 Cor 1,1), assume subito un tono polemico, scrivendo: «Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre» (Gal 1,1). Un altro segno della drammaticità della situazione è il fatto che, dopo il saluto iniziale, san Paolo non ha cominciato la sua lettera come di solito con un rendimento di grazie a Dio per i doni ricevuti dai fedeli, ma l’ha iniziata, al contrario, con un’espressione di stupore di fronte alla posizione assunta dai Galati. «Mi meraviglio, scrive Paolo, che così in fretta […] voi passiate a un altro vangelo» (Gal 1,6). Qual era quest’altro vangelo? Era un vangelo che ignorava la giustificazione per mezzo della fede in Cristo e proponeva invece la giustificazione per mezzo dell’osservanza della Legge di Mosè. Paolo, con estremo vigore, si oppone a questa gravissima deviazione. Per non meno di tre volte in una stessa frase egli respinge le pretese della Legge e afferma il valore della fede. Scrive:
«Sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge,
ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo,
abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù
per essere giustificati per la fede di Cristo
e non per le opere della Legge,
poiché per le opere della Legge
non verrà mai giustificato nessuno» (Gal 2,16).
Non era possibile essere più tassativi.
Una prospettiva nuova
Parlando così, san Paolo assume un punto di vista nuovo per esprimere l’effetto del mistero pasquale di Cristo: invece di parlare di salvezza, egli parla di «giustificazione». La catechesi primitiva annunciava la salvezza. Nel giorno di Pentecoste, san Pietro esortava gli Ebrei a «salvarsi» (At 2,40). Parlando di Gesù, Pietro proclamava: «In nessun altro c’è salvezza» (At 4,12); «Crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati» (At 15,11). San Paolo, invece, non parla mai, nella sua Lettera ai Galati, né di salvezza, né di salvatore, né di essere salvati, ma parla unicamente di «giustificazione» (Gal 2,21; 3,6.21; 5,5) e di «essere giustificati» (Gal 2,16.17; 3,8.11.24; 5,4).
Perché si esprime così? Perché vuole discutere la funzione della Legge di Mosè nella vita cristiana, in modo da poter definire gli obblighi dei cristiani venuti dal paganesimo, in materia di osservanze religiose. Dovevano o non dovevano sottomettersi alle prescrizioni della Legge, a cominciare dalla circoncisione, per continuare poi con le osservanze alimentari e l’astensione da ogni lavoro i giorni di sabato? C’erano predicatori cristiani che ritenevano che tutte queste prescrizioni valessero per tutti i cristiani.
Avevano argomenti molto forti, in particolare per l’obbligo di farsi circoncidere. Infatti, nel capitolo 17 del Libro della Genesi, Dio impone rigorosamente quell’obbligo, dicendo ad Abramo: «Questa è la mia alleanza che dovete osservare […]: sia circonciso tra voi ogni maschio. […] Il maschio non circonciso […] sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza» (Gn 17,10.14). Con altrettanto rigore era stata imposta da Dio l’osservanza del sabato. Il Libro dei Numeri riferisce un episodio molto significativo in proposito. Un uomo era stato sorpreso a raccogliere legna in giorno di sabato; fu arrestato e condotto a Mosè. «Il Signore disse a Mosè: Quell’uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento». E così fu fatto (Nm 15,32-36).
La Legge, di per sé, definisce ciò che è giusto. Quindi normalmente, per poter essere riconosciuta giusta, una persona deve osservare la Legge, fare le opere prescritte dalla Legge. Con una bella audacia, Paolo, nella Lettera ai Galati, prende posizione contro la Legge, dichiarando che «l’uomo non è giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo»; «per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno» (Gal 2,16). Con queste dichiarazioni, Paolo contraddice la prospettiva abituale, secondo la quale l’uomo viene «giustificato», cioè dichiarato giusto da Dio, quando ha fatto le opere prescritte dalla Legge. Il giudizio di Dio, infatti, si fa «secondo le opere». Nel Salmo 61(62),13 il Salmista dice a Dio: «Secondo le sue opere tu ripaghi ogni uomo». Similmente il Libro dei Proverbi dichiara che Dio «renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Prv 24,12). San Paolo conosceva benissimo questa dottrina. La fa sua nella Lettera ai Romani, quando parla «del giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,5-6). Chi vuole essere «dichiarato giusto davanti a Dio» deve quindi osservare la Legge promulgata da Dio, deve fare «le opere della Legge».
Punto di partenza: tutti sono peccatori
Come mai, allora, san Paolo può dichiarare che le opere della Legge non servono alla giustificazione della persona? Per capirlo, occorre rendersi conto che san Paolo ha approfondito la questione della giustificazione, partendo dalla situazione degli uomini, che sono tutti peccatori. Lo dice e lo ribadisce l’Antico Testamento.
Due Salmi dichiarano:
«Il Signore dal cielo si china sui figli dell’uomo
per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio».
La risposta è: «Sono tutti traviati, tutti corrotti; non c’è chi agisca bene, neppure uno» (Sal 14,2-3; 53,3-4).
L’orante del Miserere precisa che l’uomo nasce peccatore, non è mai stato senza colpa. L’orante lo riconosce dicendo:
«Ecco nella colpa io sono nato;
nel peccato mi ha concepito mia madre» (Sal 51,7).
Questa situazione complica molto il problema della giustificazione. Infatti, se il punto di partenza, per gli uomini, fosse una situazione d’innocenza, basterebbe che essi adempissero le opere della Legge, il che manterrebbe e confermerebbe la loro situazione d’innocenza; allora, alla fine, il Signore li potrebbe «giustificare», cioè li potrebbe dichiarare giusti e accoglierli nel suo cielo.
Invece, un peccatore non può essere dichiarato giusto; egli ha anzitutto bisogno di essere reso giusto. Troviamo qui un altro significato possibile del verbo «giustificare» e del nome «giustificazione» presi non più nel senso dichiarativo, «dichiarare che un uomo è giusto», ma in un senso costitutivo, «rendere giusto un uomo».
Si pone allora una domanda: è forse capace la Legge di «giustificare» in questo secondo senso, cioè di rendere l’innocenza a un peccatore? La risposta, evidentemente, è negativa. La Legge non ha alcuna capacità di rendere pura una coscienza macchiata dal peccato. La Legge può soltanto mettere in rilievo la colpevolezza del peccatore e condannarlo. Anzi, quando una persona è malvagia, il solo risultato della Legge è quello di suscitare la voglia della trasgressione. Lo dice san Paolo nella Lettera ai Romani, dove scrive: «Io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare. Ma, presa l’occasione, il peccato scatenò in me, mediante il comandamento, ogni sorta di desideri» (Rm 7,7-8). San Paolo conclude: «La Legge poi sopravvenne perché abbondasse la caduta» (Rm 5,20).
Fare «le opere della Legge» è certamente una cosa positiva, che manifesta un atteggiamento lodevole di docilità al Signore, ma san Paolo osserva che questo non basta per porre rimedio al male profondo dell’uomo peccatore, il quale è radicalmente incapace di rendersi giusto lui stesso. Per l’uomo peccatore, fare le opere della Legge è inevitabilmente un’occasione per insuperbirsi. Lo vediamo molto bene nei Vangeli a proposito dei farisei, che osservavano accuratamente tutti i precetti della Legge e apparivano «giusti all’esterno», ma «dentro» erano «pieni d’ipocrisia e di iniquità» (Mt 23,28). L’ha detto Gesù ad essi.
Tre cambiamenti sorprendenti
San Paolo può quindi dichiarare che «l’uomo non viene giustificato per le opere della Legge» (Gal 2,16). Notiamo che, nel suo modo di presentare il problema della giustificazione, l’Apostolo ha effettuato tre cambiamenti sorprendenti. Nella prospettiva tradizionale, si ricercava una giustificazione 1) dichiarativa, 2) finale, 3) basata sulle opere della Legge. Cioè: durante la loro vita, gli Ebrei religiosi si sforzavano di osservare la Legge di Mosè, nella speranza di essere dichiarati giusti dal Signore nel giudizio finale. San Paolo, invece, ha dimostrato che abbiamo tutti bisogno di una giustificazione 1) non dichiarativa ma costitutiva, 2) non finale, ma iniziale, 3) non basata sulle opere della Legge, ma su un dono gratuito del Signore. Cioè: abbiamo tutti bisogno di essere resi giusti gratuitamente dal Signore, per poter cominciare una vita nuova di unione filiale al Signore. Precisiamo subito che si tratta di un dono di Dio che è gratuito per noi, ma che è costato caro al Signore. San Paolo, infatti, ci dice che Dio «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32) e Cristo ha accolto perfettamente in se stesso il disegno generoso di suo Padre, «consegnandosi» alla sua Passione e alla morte per noi (Gal 2,20; Ef 5,2.25). La nostra giustificazione iniziale è costata questo immenso prezzo.
È quanto mai chiaro che la dottrina di san Paolo è stata fondata sulla meditazione della Passione di Gesù. Se Gesù ha tanto sofferto ed «è morto per i nostri peccati» (1 Cor 15,3), questo vuol dire che eravamo tutti profondamente macchiati dal peccato e incapaci di renderci giusti. Partendo da tale convinzione, san Paolo ha analizzato le implicazioni dell’atto di adesione alla fede in Cristo. Si è interessato di questo momento preciso. Egli ha visto che si trattava, in quel momento, di una scelta fondamentale tra due atteggiamenti religiosi opposti, uno che consiste nel presentarsi a Dio con le proprie opere conformi alla Legge, per essere «dichiarati giusti», l’altro che consiste invece nell’accogliere l’opera di Dio effettuata nella Passione e la risurrezione di Cristo ed essere così «resi giusti».
Il primo è un atteggiamento orgoglioso di autogiustificazione; il secondo è un atteggiamento umile di rinuncia all’autogiustificazione per aprirsi nella fede a un dono divino che comunica gratuitamente la giustificazione. Credere in Cristo, accoglierlo come colui che «ha dato se stesso per i nostri peccati» (Gal 1,4) significa riconoscere di essere un peccatore, incapace di rendersi giusto, e accettare l’opera di redenzione attuata da Cristo. Invece, pretendere di giustificare se stesso significa dichiarare di non aver bisogno di Cristo per presentarsi davanti a Dio (cfr Gal 2,21; 5,4). Ma tale pretesa è priva di fondamento, mera illusione. L’autogiustificazione è un vicolo cieco. Lo diceva già il Salmista, rivolgendosi a Dio in questi termini: «Non chiamare in giudizio il tuo servo: nessun vivente sarà trovato giusto davanti a te» (letteralmente: «sarà giustificato davanti a te»: Sal 143,2).
San Paolo ricorre a questo testo del Salmo nella Lettera ai Galati per appoggiare la sua posizione (Gal 2,16) e vi ricorre di nuovo nella Lettera ai Romani (Rm 3,20). In entrambe le volte egli modifica un dettaglio nella formula del Salmo; invece di dire: «Non sarà giustificato alcun vivente», Paolo dice letteralmente: «Non sarà giustificata alcuna carne, alcun essere carnale». Naturalmente, le traduzioni non rendono fedelmente il testo, perché è crudo. La traduzione della Cei nella Lettera ai Galati mette: «non verrà mai giustificato nessuno» (Gal 2,16) e nella Lettera ai Romani essa ristabilisce il testo del Salmo: «nessun vivente sarà giustificato» (Rm 3,20). La modifica, però, non manca d’importanza; essa dimostra che san Paolo ha rifiutato di considerare l’uomo peccatore un vero «vivente», essendo il peccato morte dell’anima e rifiuto della vita spirituale. L’uomo peccatore ha assolutamente bisogno di ricevere da Cristo la vera vita e la vera giustizia.
Esclusione delle opere?
È importante capire bene che san Paolo non parla della giustificazione finale, ma di una giustificazione iniziale, situata cioè all’inizio della vita cristiana, di cui essa costituisce la base. Per questa giustificazione iniziale, le opere della Legge sono completamente inutili e a fortiori le altre opere. Infatti, di per sé le opere della Legge sarebbero le più qualificate per procurare la giustificazione. Se vengono escluse, qualsiasi altro genere di opere viene escluso. Per questa ragione, la Lettera agli Efesini non dice più «le opere della Legge», ma dice semplicemente «le opere»; in essa l’Apostolo dichiara: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene» (Ef 2,9).
L’esclusione totale delle opere per la giustificazione iniziale non significa che le opere non avessero poi nessuna funzione nella vita cristiana. Talvolta questa idea viene attribuita a san Paolo, in particolare dai protestanti. È però un errore completo. Se avesse propagato questa idea, san Paolo si sarebbe messo in contraddizione flagrante con l’insegnamento di Gesù stesso, che ha detto: «Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica sarà simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia» (Mt 7,26); la sua rovina sarà grande (cfr Mt 7,27). In realtà, san Paolo spinge sempre i cristiani all’azione. Lo fa anche nella Lettera ai Galati. Vi afferma che «ciò che vale è la fede che opera per mezzo dell’amore» [Cei: si rende operosa per mezzo della carità] (Gal 5,6). San Paolo esorta poi i cristiani dicendo: «Non stanchiamoci di fare il bene […] Poiché ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6,9.10).
Parlando così, san Paolo può sembrare contraddire la sua dottrina della giustificazione per mezzo della fede senza le opere della Legge, ma in realtà non la contraddice affatto, perché non mette le opere alla base della vita cristiana; al contrario, egli mette la fede alla base delle opere: «ciò che vale è la fede che opera». San Paolo vuole che le nostre opere siano opere della fede. Possono corrispondere esternamente a quanto prescrive la Legge, ma internamente non sono un prodotto della Legge, sono un prodotto della fede, un prodotto della grazia. Da questo punto di vista, possiamo dire che san Paolo esclude completamente dalla vita cristiana le opere della Legge, perché tutto nella vita cristiana deve essere basato sulla fede.
Tra Paolo e Giacomo: contrasto o accordo?
Queste nostre riflessioni ci consentono di risolvere adesso un problema difficile, quello del rapporto tra la dottrina di Giacomo con la dottrina di Paolo. A prima vista, il rapporto sembra che sia di contrasto. Nella sua Lettera, infatti, Giacomo dichiara: «L’uomo è giustificato per le opere e non soltanto per la fede» (Gc 2,24), mentre Paolo dichiara: «L’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rm 3,28; cfr Gal 2,16). Giacomo sembra contraddire Paolo. In realtà, la contraddizione è soltanto apparente, perché Giacomo non parla della stessa giustificazione né delle stesse opere. Mentre Paolo parla — l’abbiamo visto — della giustificazione iniziale, Giacomo parla di quella finale. Poi, mentre Paolo parla delle opere della Legge, Giacomo parla delle opere della fede. Paolo esclude le opere della Legge per la giustificazione iniziale; Giacomo esige le opere della fede per la giustificazione finale. Giacomo dice che la fede deve produrre opere, altrimenti essa «è morta» (Gc 2,17.26), inesistente. A chi pretendesse di avere la fede senza le opere, Giacomo ribatte: «Mostrami la tua fede senza le opere e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2,18). Questa frase dimostra chiaramente che Giacomo sta parlando di opere prodotte dalla fede, le quali quindi manifestano la fede. Su questo punto, Paolo è pienamente d’accordo con Giacomo. Ricordiamoci che, proprio nella Lettera ai Galati, Paolo dichiara: «Ciò che vale è la fede operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Quando è autentica, la fede produce opere di amore.
È dunque erroneo contrapporre Giacomo a Paolo sul tema della giustificazione. Una interpretazione precisa del testo di Giacomo e un raffronto con l’insieme della dottrina di Paolo hanno per risultato quello di dimostrare che non c’è contraddizione tra di loro. Tutti e due mettono la fede in Cristo alla base della vita cristiana, tutti e due esigono che la fede produca opere.
La dimostrazione di san Paolo
Dopo aver affermato energicamente (cfr Gal 2,16) la sua tesi della giustificazione per mezzo della fede, san Paolo si applica a dimostrare questa tesi. La sua dimostrazione è molto forte, perché si basa sulla perfetta convergenza di tre specie di argomenti: un argomento di fatto storico, un argomento di esperienza personale e un argomento di Sacra Scrittura. Facciamo questa constatazione sin dall’inizio della dimostrazione, cioè sin dall’inizio del capitolo terzo. Nel primo versetto, Paolo ricorda il fatto storico della crocifissione di Gesù Cristo; nei versetti da 2 a 5, Paolo ricorda l’esperienza fatta dai Galati nella loro conversione alla fede in Cristo; poi nel v. 6, egli cita un testo della Sacra Scrittura sulla fede di Abramo che gli ottenne di essere giustificato.
Un evento decisivo: la morte di Gesù
Nel primo versetto, Paolo interpella i Galati dicendo: «O stolti Galati, chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei quali Gesù Cristo fu rappresentato crocifisso?» (Gal 3,1). L’interpellanza è dura, anzi offensiva. Anziché dire «fratelli» oppure «carissimi», Paolo adopera l’appellativo regionale «Galati» e lo fa precedere da un qualificativo che è un insulto: «stolti». Per Paolo, l’atteggiamento assunto dai Galati, che cercano di essere giustificati per mezzo delle opere della Legge, è una completa stoltezza, perché non è coerente con un fatto che conoscono molto bene, la morte di Gesù sulla croce. Perché non è coerente con questo fatto? Perché la morte di Gesù è un atto di amore estremo compiuto per noi da una persona che è il Figlio di Dio, un atto che non può non avere un valore immenso per la nostra giustificazione; cercare di essere giustificati per mezzo delle opere della Legge vuol dire negare il valore di questo atto di amore estremo del Figlio di Dio, Paolo l’ha appena detto nella frase precedente, dichiarando che «se la giustizia viene per mezzo della Legge, allora Cristo è morto invano» (Gal 2,21). Paolo rifiuta con orrore questa posizione e proclama: «La vita che vivo adesso nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
Una esperienza illuminante: il dono dello Spirito
Dopo aver interpellato i Galati e ricordato loro il fatto storico della morte di Cristo per i nostri peccati, Paolo fa appello alla loro esperienza personale dicendo: «Questo solo desidero apprendere da voi: È forse in base alle opere della Legge che avete ricevuto lo Spirito [Santo] o non è piuttosto in base a un ascolto di fede?». A questa domanda dell’apostolo i Galati erano costretti a rispondere: «Abbiamo ricevuto lo Spirito in virtù di un ascolto di fede e non in virtù di opere di Legge». Infatti la Legge di Mosè, non la conoscevano nemmeno, essendo allora pagani, e Paolo non l’aveva insegnata loro. Quindi non avevano compiuto le opere prescritte dalla Legge; avevano dovuto soltanto ascoltare con fede l’annuncio del mistero di Cristo, crocifisso e risorto per la salvezza del mondo. Con la sua solita audacia, Paolo conduce così i Galati a riconoscere che, nel caso considerato, si trovava contraddetta una regola tradizionale, quella che afferma: «Non basta l’ascoltare, è necessario il fare». Gesù esprime questa regola nella conclusione del suo Discorso della Montagna (Mt 7,24-27). Valida generalmente, la regola perde la sua validità, quando si tratta della prima tappa della vita cristiana. Per questa prima tappa, fondamentale, l’atteggiamento richiesto è quello puramente ricettivo. Lo Spirito Santo è un dono divino, non è il risultato di un’attività umana. Una volta ricevuto lo Spirito, diventa però possibile, con il suo aiuto potente, un’attività fondata sulla fede, ed è proprio doverosa, l’abbiamo visto. Però non è così nella prima tappa.
Un argomento di Scrittura (Gn 15,6)
All’argomento preso dall’esperienza personale dei Galati, Paolo fa seguire un argomento preso dalla Sacra Scrittura, una frase del libro della Genesi che afferma: Abramo «credette a Dio e questo gli fu accreditato a giustizia» (Gal 3,6; Gn 15,6). L’esperienza dei Galati, che hanno ricevuto lo Spirito Santo in virtù di un ascolto di fede, corrisponde a quanto dice la Scrittura a proposito di Abramo. In effetti, nel suo capitolo 15, il Libro della Genesi racconta che Abramo si lamentava perché non aveva figli. Dio allora «lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”; e aggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gn 15,5-6)
La citazione della frase di Gn 15,6 in Gal 3,6 costituisce l’argomento di Scrittura destinato a provare che la base della vita cristiana non è l’osservanza della Legge, ma l’ascolto di fede. Il caso di Abramo corrisponde effettivamente alla problematica definita da san Paolo. Secondo il racconto di Gn 15, in quella circostanza Dio non aveva comandato niente ad Abramo; gli aveva soltanto fatto una promessa inverosimile, quella di una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Per Abramo, non si trattava quindi di fare o di non fare qualcosa. Si trattava soltanto di aver fede nella parola di Dio o di rimanere scettico. Abramo credette a Dio. Similmente per i Galati: al momento della loro conversione, non si era trattato di osservare la Legge, ma soltanto di credere all’annuncio del Vangelo.
Si pone allora una domanda: che rapporto c’è tra la «giustizia» accreditata ad Abramo e la giustificazione dei cristiani? Per rendersene conto, occorre ricordarsi che, nella tradizione biblica, l’idea di giustizia non è un’idea astratta di conformità a una norma, ma un’idea di relazione tra le persone. È giusto davanti a Dio colui che si trova in una situazione che gli rende possibile una relazione armoniosa con Dio. Quindi la frase di Gn 15,6 vuol dire che Dio ha considerato l’atteggiamento di fede di Abramo un atteggiamento che mette il patriarca in accordo con Lui. L’interpretazione di Paolo si imposta esattamente in questa prospettiva fermamente definita nell’Antico Testamento.
Conclusione
Paolo evidentemente ha approfondito questo tema in maniera nuova, quando ha parlato della giustificazione per mezzo della sola fede. Il contesto di Gn 15,6, infatti, non suggeriva affatto che Abramo fosse peccatore e che fosse stato liberato dal peccato per mezzo della sua fede. Nondimeno questo testo esprime bene l’efficacia della fede per la relazione con Dio e fornisce quindi un ottimo punto di partenza per l’argomentazione di Paolo.
Paolo ha approfondito il tema alla luce del mistero pasquale di Cristo, «morto per i nostri peccati» (1 Cor 15,3) e «risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25). La mente creativa dell’Apostolo ha concepito allora l’idea nuova di una giustificazione basata non sulle opere della Legge, ma sul dono gratuito di Dio in Cristo, una giustificazione che non è una semplice dichiarazione d’innocenza, ma che rende giusti i peccatori grazie alla Passione di Cristo, una giustificazione che non viene dopo il compimento delle opere della Legge, ma prima del compimento delle opere della fede, che essa rende possibile e doveroso. La Lettera ai Galati trasmette questa dottrina luminosa e profonda.

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