Ddl Zan: prima le persone

Ddl Zan: prima le persone

Ddl Zan: prima le persone
di Giacomo COSTA SJ

Il copione è consolidato: si prende una questione di quelle che, in modo più o meno accurato, vengono chiamate “eticamente sensibili”, che toccano dimensioni profonde dell’identità e della sensibilità delle persone, e se ne fa oggetto di un provvedimento che diventa la bandiera di uno schieramento politico e il bersaglio di quello avversario, beneficiando della grande visibilità mediatica di questo tipo di temi. L’episodio attualmente in corso riguarda il disegno di legge (ddl) Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, noto anche come ddl Zan, dal cognome del deputato del Partito democratico che ne è stato relatore alla Camera. Il testo, disponibile sui siti delle Camere, è il frutto della fusione di varie proposte, presentate sin dall’inizio della Legislatura da deputati di vari schieramenti. Approvato alla Camera il 4 novembre 2020, è attualmente all’esame della Commissione Giustizia del Senato.



Non è difficile riconoscere l’evoluzione del quadro politico nazionale tra le righe dell’iter del provvedimento, che si avvia poco dopo l’insediamento del Governo Conte II, prestandosi con tutta evidenza a marcare la differenza tra la nuova maggioranza giallorossa e la precedente gialloverde. Così, inevitabilmente, non può che diventare motivo di discordia nel momento in cui la configurazione della maggioranza torna a modificarsi, con il passaggio al Governo Draghi. Il risultato è scontato: un braccio di ferro tra i sostenitori della necessità di approvare il testo senza alcuna modifica e quanti lo avversano ritenendolo foriero di sciagure e catastrofi. Ne segue una grande confusione, in particolare tra quanti, anche all’interno della compagine ecclesiale, non riescono a rassegnarsi a non potere fare altro che iscriversi acriticamente tra i “tifosi” dell’una o dell’altra posizione.



In realtà possiamo, anzi dobbiamo, sottrarci a questo destino, recuperando il ruolo di cittadini in una interlocuzione costruttiva con il mondo della politica. Per farlo, occorre trovare il tempo per ascoltare la realtà, mettere a fuoco il vero nucleo della questione e scoprire quali sono i passi necessari per raggiungere un risultato costruttivo, piuttosto che per ottenere una vittoria che si riduce a prevalere su un avversario. È questo il modo per promuovere il bene comune, in particolare quando sono in gioco questioni che riguardano l’inclusione.


Fatti e interpretazioni

Il punto di partenza è che ci troviamo di fronte a persone che subiscono discriminazioni e violenze, e per questo soffrono. È questa la realtà a cui prestare ascolto e da non lasciar occultare da dispute ideologiche. La cronaca documenta a sufficienza il problema: dal bullismo nelle scuole al mobbing sui posti di lavoro, ai pestaggi nei parchi o per le strade, a danno di persone che sono portatrici di una diversità, che è oggetto di stigma, come la disabilità o l’omosessualità e la transessualità. Si tratta di forme di discriminazione e di violenza particolarmente abiette, perché prendono di mira l’identità e incidono sul riconoscimento e l’autostima di chi ne è vittima, con conseguenze anche pesanti, come dimostrano i casi limite di suicidio tra gli adolescenti vittime di bullismo per queste ragioni. Non è nemmeno una novità, visto che si discute della possibilità di un intervento legislativo su questo tema da ormai 25 anni.



Sono fenomeni radicati non tanto nel terreno delle relazioni interpersonali, ma in un profondo malessere della nostra società e della nostra cultura, in cui l’uguaglianza, pur affermata, resta una meta da conquistare. In particolare, sono il risultato di meccanismi che abbiamo approfondito nell’editoriale del numero di maggio, dedicato al tema del razzismo, che presenta significative analogie: la cultura dominante identifica un profilo che costituisce la “norma” – in Occidente tipicamente il maschio bianco eterosessuale autoctono – e legittima l’interpretazione delle differenze come condizione di inferiorità o minorità. La discriminazione e la violenza, verbale e/o fisica, non fanno che rimarcare questa condizione, perpetuando la gerarchia sociale vigente, in particolare a fronte di comportamenti che la sfidano e sono per questo ritenuti trasgressioni da punire. L’affermazione dell’inferiorità degli uni è funzionale alla pretesa di superiorità degli altri.



Inoltre, va sottolineato come gli atti di discriminazione e violenza di questo genere non colpiscano solo coloro che li subiscono direttamente: si traducono in una minaccia per tutti gli altri membri della società che vivono la medesima condizione, minandone il diritto alla tranquillità, alla sicurezza, alla libertà di circolazione. È corretto quindi che la norma riconosca questa maggiore gravità attraverso una sanzione che va oltre quella degli atti di violenza generica, come fa il ddl Zan, inserendo questi reati tra quelli contro l’uguaglianza, di cui agli artt. 604 bis e ter del Codice penale, ampliandone l’applicazione oltre la discriminazione razziale, etnica e religiosa.



L’ultimo elemento che va tenuto presente per non tradire la realtà è la complessità della questione e soprattutto la varietà delle posizioni. Vale certamente nell’ambito della disabilità, come dimostra ad esempio l’evoluzione dei termini utilizzati, compreso un neologismo come “diversabile”, nessuno dei quali è esente da critiche da parte di alcune delle persone coinvolte; ma almeno nessuno sembra mettere in dubbio la necessità della tutela delle persone con disabilità. La questione si complica all’ennesima potenza per quanto riguarda la sfera della sessualità, a partire dalla visione antropologica a cui si fa riferimento per interpretarla. Un punto particolarmente delicato, su cui scienze biologiche, psicologia e filosofia sono ben lontane dall’aver raggiunto un consenso, riguarda proprio il crinale che unisce il dato biologico, la sua interpretazione culturale e l’assunzione di biologia e cultura all’interno del percorso di costruzione dell’identità personale1.



L’esperienza di ciascuno è singolare e non tutti si riconoscono nelle stesse parole. La varietà si riscontra anche tra le posizioni dei gruppi coinvolti, come mostra la diversità di accenti all’interno del mondo femminista e rispetto alla frastagliatissima galassia abitualmente indicata con l’acronimo LGBT o sue varianti. In un contesto pluralista le divergenze non devono stupire: occorre trovare il modo di andare avanti insieme, resistendo alla spinta all’omogeneizzazione, che è una tentazione per tutte le posizioni e tutte le parti in causa, non solo quelle in qualche modo dominanti.


«La realtà è superiore all’idea»

Sulla base delle esperienze analoghe degli ultimi decenni, la miscela è a rischio di deflagrazione, con tutti gli strascichi del caso, a prescindere dal contenuto effettivo della norma che sarà eventualmente approvata: troppe sono le interferenze di altro genere. Sfuggire a un destino che sembra segnato è possibile, a nostro avviso, prendendo come criterio guida un principio che ci piace qui esprimere nella sua formulazione originaria: «la realtà è superiore all’idea» (Evangelii gaudium, n. 231). È un punto su cui papa Francesco ha insistito con forza nelle parole che ha rivolto a redattori e collaboratori di Aggiornamenti Sociali quando ci ha ricevuto per il 70° anniversario della Rivista, il 6 dicembre 2019. In questo caso, la realtà è la situazione delle persone vittime di violenza e discriminazione che abbiamo rapidamente ricordato nel paragrafo precedente, con la conseguenza dell’urgente necessità di proteggere la loro dignità e talvolta anche la loro incolumità. Come afferma il n. 158 di Laudato si’, il bene comune si trasforma oggi nell’esigenza della solidarietà verso chi è scartato. Tutto il resto è chiamato a passare in secondo piano, a partire dalla volontà di marcare il territorio o ribadire i principi. È questo il criterio con cui misurare la bontà delle intenzioni di tutte le parti in causa: chi non è disponibile a questo passo, in realtà non sta puntando a tutelare la dignità delle persone, ma le strumentalizza per altri fini.



Le conseguenze sono molto concrete, a partire dal prendere atto che è impossibile codificare in definizioni di poche righe, come quelle dell’art. 1 del ddl, una terminologia su cui il dibattito è tutt’altro che concluso, ad esempio rispetto al rapporto tra sesso e genere. A riguardo il pensiero femminista esprime una articolata varietà di posizioni e interpretazioni, così come quello che si ispira all’antropologia biblica. Per promuovere il rispetto di persone che, tra l’altro, non si riconoscono tutte in una medesima formulazione, non occorre definirle a priori.



Il rispetto della realtà esige poi che si eviti ogni confusione o ambiguità sul fatto che il ddl ha per oggetto la discriminazione e non la disciplina del matrimonio e delle convivenze, dell’adozione, dell’affido o dell’accesso alla procreazione medicalmente assistita, che non sono materia del Codice penale. Sono questioni su cui il dibattito potrà e dovrà continuare – non comincia certo oggi – in seno alla società e alla politica.



Ugualmente il principio di realtà richiede che si usi cautela nel suscitare la prospettiva della minaccia alla libertà di espressione. La Legge Mancino (L. n. 205/1993), che introdusse nel nostro ordinamento una sanzione specifica per gli atti di discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, dal 2018 oggetto degli artt. 604 bis e ter del Codice penale attualmente vigenti e di cui si propone ora l’ampliamento, fu approvata quasi vent’anni fa. Vista l’abbondanza delle manifestazioni di razzismo che nello stesso periodo sono circolate nella nostra cultura, nei nostri media e nella nostra politica, non è realistico prospettare che quella norma possa rappresentare un bavaglio per la società italiana.



Il tema della libertà di espressione, che resta un punto di frizione nelle nostre società sempre più frammentate, si presta piuttosto a un’altra considerazione, sempre sulla base della prospettiva che abbiamo assunto. Esprimere le proprie posizioni è un diritto, ma la priorità della tutela della dignità dell’essere umano – che per la Fratelli tutti rappresenta l’ancoraggio che sottrae la verità al relativismo (cfr n. 213) – richiede l’impegno di cercare modalità per formularle nella loro integralità, profondità e ricchezza, senza che risultino aggressive, violente o escludenti per coloro che la pensano diversamente. A prima vista può sembrare impossibile, visto l’attaccamento che ciascuno, singolo o gruppo che sia, nutre nei confronti delle parole chiave in cui sente di riconoscersi.



È una sfida che richiede una vera e propria conversione, e che ovviamente riguarda tutte le componenti della società, compresa la comunità ecclesiale. Anche se può risultare faticoso, è doveroso riconoscere che, ad esempio in materia di sessualità, il lessico con cui tradizionalmente sono formulate alcune posizioni della Chiesa, specie quando viene estrapolato dal contesto filosofico e teologico in cui sono state elaborate, – pensiamo ad esempio a una espressione come “intrinsecamente disordinato” – finisce per assumere tonalità che suonano dispregiative, in particolare per chi già subisce discriminazioni, rinforzando i dinamismi socioculturali descritti nel paragrafo precedente. Un altro esito, paradossale dal punto di vista della Chiesa, è che quel lessico costituisce oggi un ostacolo che impedisce a molte persone, in particolare ai giovani, di accedere alla ricchezza e alla bellezza dell’antropologia cristiana, anche per quanto riguarda la sessualità. È emerso con evidenza nel percorso del Sinodo sui giovani del 2018 (cfr i nn. 39 e 149-150 del relativo Documento finale). Per molte ragioni cercare un’alternativa è dunque urgente.



Ci è di stimolo anche la consapevolezza di quanto si sia rivelato fecondo per la Chiesa l’abbandono del lessico dei “perfidi giudei” e del “popolo deicida” nei confronti degli ebrei, che l’esperienza storica ci ha insegnato essere pericolosamente contiguo alla violenza antisemita, talvolta finendo per legittimarla, assumendo invece quello dei “fratelli maggiori”. A dispetto delle residue nostalgie, la proposta della Chiesa non è diventata per questo meno evangelica, anzi il cambiamento ha consentito di scoprire nuove declinazioni del comandamento dell’amore fraterno, come mostra in maniera esemplare l’enciclica Fratelli tutti. Nulla obbliga a pensare che non possa accadere lo stesso a seguito della “bonifica” di altre porzioni del lessico ecclesiale.


Agire: la legge e oltre



Quanto più lo spazio pubblico risulterà “sminato” da occasioni o pretesti di possibili conflitti ideologici, tanto più la politica potrà tornare a svolgere il proprio ruolo di mediazione, da intendere in un senso ben preciso: la situazione richiede ai politici di essere non intermediari di interessi in conflitto, ma mediatori tra gruppi alla ricerca di come armonizzare le diversità senza omogeneizzarle. Il che ovviamente esclude di fomentare la confusione e la polarizzazione per ragioni di tornaconto elettorale, o di porsi come obiettivo principale la sconfitta dell’avversario, magari attraverso il rinvio sine die di una legge di cui c’è bisogno. In questa luce pare promettente approfondire la proposta, avanzata dal giurista ed ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, di imperniare la norma sul solo termine “sesso”, da intendersi come coestensivo a tutte le manifestazioni ed espressioni personali della sessualità, rinunciando di conseguenza alla codificazione dell’attuale art. 1 del ddl (cfr «Ddl Zan, i dubbi di Flick: scelte pericolose, il Senato rifletta bene», intervista di A. Picariello, in Avvenire, 11 maggio 2021). Oltre a permettere di liberarsi dai problemi di lessico e categorie, l’ipotesi è interessante in quanto si farebbe ricorso al termine usato nel testo dell’art. 3 Cost., in cui si radica qualsiasi lotta alle discriminazioni e alle disuguaglianze.



Infine, per quanto possa sembrare scontato, è bene ricordare che da sola nessuna legge basta a risolvere i problemi, men che meno in un caso come questo. La sua assenza certo rappresenta un ostacolo, ma, come insegnano le femministe, la battaglia è innanzi tutto culturale e va condotta ogni giorno, per aumentare la consapevolezza e disinnescare progressivamente quei meccanismi di discriminazione che segnano la cultura di cui tutti siamo portatori: a prescindere dalla bontà delle intenzioni, siamo una società razzista, maschilista e omofoba. Si apre qui la possibilità di utilizzare il lavoro sul fronte educativo, che il ddl

Zan prospetta, non nella chiave della colonizzazione ideologica, come taluni temono, ma in quella della decostruzione di stereotipi e pregiudizi a tutela della dignità e a servizio della libertà di tutti. Una buona legge è certamente un valido punto di partenza, ma vincere la sfida richiede che tutte le componenti della società scelgano di uscire dalle trincee ideologiche e si incontrino portando ciascuna il proprio contributo, come occasione per coltivare la fraternità e l’amicizia sociale.




1 Per un approfondimento, sulle pagine e sul sito della nostra Rivista, rinviamo a due contributi di Susy Zanardo, tuttora pienamente validi: «Gender e differenza sessuale. Un dibattito in corso», in Aggiornamenti Sociali, 5 (2014) 379-391; «La questione della differenza sessuale», in Aggiornamenti Sociali, 12 (2015) 833-844.

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