Migranti: pensare localmente e agire (anche) globalmente

Migranti: pensare localmente e agire (anche) globalmente

Migranti: pensare localmente e agire (anche) globalmente

G. Costa SJ : Fascicolo: agosto-settembre 2017

Il sistema ONU, insieme agli Stati e agli attori non governativi, è a metà strada di un processo per affrontare la questione delle migrazioni in maniera strutturale, che culminerà nel 2018 con i Patti sulle migrazioni e sui rifugiati. Papa Francesco, che ha scelto le migrazioni come punto focale d’intervento, desidera che la Chiesa, mettendo a disposizione la propria esperienza e le proprie riflessioni e facendo pressione sui Governi nazionali, partecipi a questo tentativo di elaborazione di un quadro d’azione condiviso.
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«Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata». Che cosa significa accettare il conflitto che le migrazioni suscitano nelle nostre società? Come è possibile non rimanervi imprigionati, ma impegnarsi per «risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, n. 227)?

Certo, non mancano esperienze positive di accoglienza e integrazione, così come un patrimonio di principi di riferimento riconosciuti a livello internazionale, a partire dal corpus dei diritti umani. È altrettanto chiaro che è in gioco la vita di molte persone e intere comunità. Ma questo non può farci misconoscere la potente carica conflittuale che si scatena a ogni livello, ben al di là dei fatti di cronaca che si ripetono con frequenza crescente. Il conflitto intorno alle migrazioni attraversa la politica nazionale di tutti i Paesi, così come i rapporti tra Stati, anche all’interno di un’area relativamente coesa come l’Unione Europea. Persino tra coloro che condividono l’impegno per i diritti degli immigrati non mancano le contrapposizioni sul modo migliore di portare avanti le proprie posizioni.

La carica conflittuale legata alle migrazioni è ben più profonda di tutto ciò: come evidenziano le ricerche sociologiche, nell’arco degli ultimi vent’anni il tema dell’immigrazione ha infatti ristrutturato radicalmente i conflitti sociali e gli spazi politici, così come l’immaginario collettivo, che tra l’altro raramente percepisce correttamente le dimensioni reali dei fenomeni. Oggi il tema dell’immigrazione ha assunto una valenza strutturale e strutturante per la nostra società e i conflitti sociali si coagulano in larga parte attorno ad esso.

Volenti o nolenti, siamo già una società dell’immigrazione e proprio per questo è pericoloso continuare a trattare la materia solo nella prospettiva e con il lessico dell’emergenza, cercando di tappare i buchi e arginare le falle. Per affrontare i conflitti e le tensioni collegati ai flussi migratori è necessario infatti pensare e agire a ogni livello, senza dimenticare quello globale. È proprio l’analisi dei processi locali che ci conferma infatti che non possiamo fare a meno di forme di governance globale dei processi migratori. Lo sanno bene le realtà locali e nazionali quando sono lasciate da sole a cavarsela di fronte a situazioni di urgenza e di tensione. Senza un quadro sovranazionale per risolvere i conflitti (bellici, economici, ambientali, ecc.) che generano la spinta a emigrare, producendo flussi di rifugiati, profughi e migranti, ogni soluzione su altra scala (dai respingimenti alle quote) faticherà a funzionare.

Proprio un anno fa presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha preso le mosse un processo, rimasto almeno in Italia lontano dai riflettori e dall’attenzione dell’opinione pubblica, che rappresenta il tentativo a oggi più compiuto di creare un quadro al cui interno far dialogare i diversi punti di vista e fare evolvere i conflitti in maniera costruttiva. Provare ad assumere questa prospettiva potrà aiutarci a modificare il modo di stare dentro la nostra società e la nostra cultura e di affrontare le situazioni problematiche e conflittuali a livello locale. Al tempo stesso, partecipare a un processo globale apportandovi i frutti migliori delle esperienze locali è il modo per evitare che rimanga astratto e teorico.

La Dichiarazione di New York

Il 19 settembre 2016 i rappresentanti dei 193 Stati membri dell’ONU hanno preso parte al Vertice delle Nazioni Unite su migranti e rifugiati, organizzato nell’ambito dei lavori dell’Assemblea generale. Il frutto del Vertice è la Dichiarazione di New York per i rifugiati e i migranti. Nonostante le critiche da parte di Organizzazioni non governative (ONG) internazionali, che sottolineano la debolezza della Dichiarazione in quanto non vincolante per i Paesi che l’hanno sottoscritta, non dobbiamo sottovalutarne l’importanza come quadro di riferimento e di coordinamento delle iniziative. Soprattutto – come vedremo – la Dichiarazione ha messo in moto un articolato processo internazionale di confronti e dialoghi per affrontare le questioni di migranti e rifugiati che culminerà nel 2018.

Di questo percorso la Dichiarazione tracciava le coordinate, esplicitando alcuni punti fermi che costituivano una prima base di intesa per affrontare la questione delle migrazioni integrando prospettive diverse. Tra questi punti merita segnalare la valutazione condivisa che i migranti non sono innanzi tutto un problema, ma rappresentano un contributo positivo nella direzione della crescita inclusiva e dello sviluppo sostenibile; la consapevolezza che le migrazioni internazionali sono fenomeni multidimensionali e trasversali che richiedono approcci e soluzioni globali, integrate e coerenti, poiché si collocano oltre l’ambito in cui l’azione dei singoli Stati risulta efficace. La Dichiarazione sottolineava poi l’importanza di rafforzare il collegamento tra la questione delle migrazioni e la promozione dello sviluppo, così come la necessità di superare le molte e diverse forme di discriminazione subite dai migranti, esprimendo preoccupazione per l’approvazione da parte di alcuni Stati di leggi che ne mettono a repentaglio i diritti umani.

Infine la Dichiarazione di New York esprimeva la necessità della cooperazione internazionale per assicurare migrazioni «sicure, ordinate e regolari» («safe, orderly and regular migration», nella versione inglese che sta diventando quasi uno slogan nel settore), sempre nel rispetto dei diritti umani. A riguardo, il testo sottolinea che migranti e rifugiati sono soggetti dei medesimi diritti umani e libertà fondamentali, pur nella consapevolezza che il trattamento riservato agli uni e agli altri è regolato da normative distinte (cfr n. 6).

Verso due Patti mondiali

Su questa distinzione si fonda la decisione di dare vita a due processi negoziali che la stessa Assemblea generale dell’ONU, nella Risoluzione 71/280 del 6 aprile 2017, qualifica come «separati, distinti e indipendenti», finalizzati all’elaborazione di due diversi Patti mondiali (dove “patto” è la traduzione del più comunemente utilizzato termine inglese compact, ovvero un accordo frutto di negoziato), uno relativo ai rifugiati e l’altro ai fenomeni migratori che coinvolgono persone prive dei requisiti per la richiesta di asilo secondo la normativa internazionale in vigore. Questa scelta suscita perplessità e resistenze più che giustificate, per la difficoltà pratica a separare ciò che è praticamente indistinguibile e visto l’unanime riconoscimento della complessità e dell’interrelazione dei fenomeni. Risponde probabilmente alla paura che ricondurre a unità le diverse categorie avrebbe potuto mettere a repentaglio quanto già acquisito a livello internazionale in materia di protezione dei rifugiati, rischiando quindi di penalizzarli, oltre che alla necessità di mantenere lo spazio di azione delle agenzie che si occupano dei diversi aspetti del fenomeno: l’Alto commissariato per i Rifugiati (UNHCR, agenzia ONU fondata nel 1950) e l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (OIM, <www.italy.iom.int>), fondata nello stesso periodo (1951) ma rimasta all’esterno del sistema ONU fino a poco fa. In fin dei conti, lo sdoppiamento dei processi potrebbe anche rivelarsi un aiuto in termini di fluidità dei negoziati e di possibilità di raggiungere dei risultati.

Entrambi i processi proposti nel 2017 adottano l’approccio che gli studi di politica definiscono multistakeholder: sollecitano cioè la partecipazione attiva e il coinvolgimento di una pluralità di attori diversi. Sono così invitati a partecipare gli Stati membri dell’ONU, le agenzie specializzate delle Nazioni Unite, le altre organizzazioni intergovernative esterne al sistema ONU, ma anche attori non governativi. E tra questi l’invito non è rivolto solo alle grandi ONG attive sul tema dei diritti umani o già accreditate presso il Consiglio economico e sociale dell’ONU (ECOSOC), ma anche ad associazioni e movimenti della società civile, istituzioni accademiche, imprese private e soprattutto organizzazioni di migranti. Si riconosce quindi che le migrazioni sono una questione che interpella la società nel suo complesso, che non è possibile affrontarle soltanto a livello statale o intergovernativo, e che ogni attore ha un ruolo e un contributo specifico nell’elaborazione di una risposta globale.

I lavori di preparazione del Patto mondiale per migrazioni sicure, ordinate e regolari sono già cominciati, con sei consultazioni tematiche programmate tra aprile e novembre 2017 sui seguenti ambiti: diritti umani dei migranti e lotta a tutte le forme di discriminazione; contrasto alle cause delle migrazioni (cambiamenti climatici, disastri naturali ed eventi bellici) attraverso la promozione dello sviluppo sostenibile e le iniziative di risoluzione dei conflitti; cooperazione internazionale in materia di governance dei flussi migratori; contributo dei migranti allo sviluppo sostenibile (incluso il tema delle rimesse); tratta, schiavitù e lavoro forzato; migrazioni irregolari e percorsi di regolarizzazione. Seguirà una fase di raccolta dati, che lascerà spazio a partire da febbraio 2018 al negoziato intergovernativo. Il processo culminerà tra un anno, in occasione dell’Assemblea generale dell’ONU nel settembre 2018, quando il Patto globale (Global Compact) sulle migrazioni sarà approvato. Esso rappresenterà il quadro per una cooperazione internazionale capace di integrare le varie dimensioni dei fenomeni migratori; anche se non si tratterà di uno strumento di per sé normativo, le sue disposizioni permetteranno di esplicitare gli obblighi degli Stati in forza delle norme internazionali già vigenti.

È già iniziato anche il processo che condurrà al Patto mondiale sui rifugiati, che punta a identificare le linee di una strategia integrata basata sulla cooperazione internazionale e sui principi di condivisione di responsabilità e oneri e ad elaborare un piano di azione per renderla operativa. Il Patto mondiale sui rifugiati avrà la forma di un rapporto dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati all’Assemblea generale dell’ONU, che sarà chiamata ad approvarlo. Anche questo Patto mira a una risposta articolata in vista di quattro obiettivi: alleviare la pressione sui Paesi ospitanti; promuovere l’autonomia dei rifugiati; incrementare il reinsediamento in Paesi terzi; aiutare a creare le condizioni che permettano il ritorno nei Paesi di origine in condizioni di sicurezza e dignità.

Una scelta preferenziale per la Chiesa

Con le modalità e i tempi propri del sistema ONU, la comunità internazionale si è dunque messa in movimento per affrontare una delle questioni più scottanti del mondo contemporaneo. L’opportunità di questo processo è stata colta da papa Francesco e dagli organismi vaticani attivi sul tema delle migrazioni, che ci offrono stimoli e strumenti di riflessione e di azione.

Papa Francesco non ha avuto paura di fare delle migrazioni, o meglio dei migranti, uno degli assi portanti del suo pontificato, anche a costo di suscitare polemiche o alienarsi alcune simpatie. Pensiamo alla scelta di Lampedusa, un luogo simbolico, come meta del suo primo viaggio apostolico, al controverso appello perché ciascuna comunità parrocchiale dia accoglienza a una famiglia di profughi, all’invito agli ordini religiosi a mettere a disposizione di migranti e rifugiati le strutture sottoutilizzate o infine alla dura posizione contro il progetto di costruzione di un muro tra Stati Uniti e Messico avanzato durante la campagna elettorale dall’attuale presidente americano Donald Trump.

Non si tratta però solo di risposte emotive o di slanci di solidarietà verso alcune tra le vittime delle peggiori ingiustizie. In questa “opzione preferenziale” per migranti e rifugiati di papa Francesco riteniamo corretto riconoscere una scelta strategica che impatta sul modo di intendere tutta l’azione evangelizzatrice della Chiesa. Se, come indicavamo in apertura, le migrazioni sono la faglia lungo cui si scatenano le principali tensioni sociali del mondo contemporaneo, sceglierle come oggetto di attenzione prioritaria segnala l’invito alla Chiesa ad attraversare i conflitti, facendosene carico in vista di una loro soluzione, secondo quanto abbiamo ricordato in apertura. In coerenza con questa scelta, papa Francesco ha deciso di dotare la Santa Sede di uno strumento per partecipare agli sforzi globali in materia di migrazione anche a livello di riflessione e di negoziato: al momento di dar vita al nuovo Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale (1° gennaio 2017), ha infatti disposto l’istituzione di una Sezione dedicata a profughi e migranti, che rimane almeno temporaneamente sotto la sua guida personale diretta.

Il 21 febbraio 2017, rivolgendosi ai partecipanti al Forum internazionale «Migrazioni e pace», il Pontefice ha sintetizzato le dimensioni di questa scelta strategica attraverso quattro verbi – accogliere, proteggere, promuovere e integrare –, invitando a viverli concretamente come singoli e come comunità: «Credo che coniugare questi quattro verbi, in prima persona singolare e in prima persona plurale, rappresenti oggi un dovere, un dovere nei confronti di fratelli e sorelle che, per ragioni diverse, sono forzati a lasciare il proprio luogo di origine: un dovere di giustizia, di civiltà e di solidarietà».

Questi quattro verbi, solo all’apparenza semplici, ci aiutano a cogliere i diversi aspetti della sfida di «accettare» i conflitti legati ai flussi migratori. Sono rivolti a tutti, a prescindere dalla posizione che ciascuno occupa nel complesso scacchiere delle migrazioni. Valgono dunque per i Paesi di partenza come per quelli di transito e di arrivo, per gli operatori del settore così come per la società e la comunità ecclesiale e per i singoli cittadini e credenti, migranti compresi.

Ci spingono a fare attenzione al rischio di derive assistenzialistiche, che una certa retorica dell’accoglienza può ingenerare, quando all’inevitabile riconoscimento dell’asimmetria delle posizioni, in particolare nelle situazioni di emergenza, non fa seguito un’azione per il progressivo superamento di possibili dipendenze. Anche per quanto riguarda l’accoglienza vale l’affermazione che papa Francesco spesso ripete, ossia che i poveri, profughi compresi, sono capaci di essere protagonisti del proprio sviluppo.

Per rispettare il pensiero del Pontefice, appare inevitabile assumere i quattro verbi nella logica dell’ecologia integrale, cioè dell’attenzione a identificare nessi e legami tra fenomeni anche apparentemente lontani: ad esempio, come chiarisce il n. 25 dell’enciclica Laudato si’, occuparsi di migrazione impone in molti casi di affrontare anche la questione dei cambiamenti climatici, non soltanto quella di sbarchi e respingimenti (cfr l’articolo di Roger Zetter alle pp. 542-552 di questo numero). Per la stessa ragione occorre interpretare i quattro verbi in chiave poliedrica, cioè declinandoli in una molteplicità di situazioni e da molteplici di punti di vista: quello dei migranti non è quello delle popolazioni autoctone, ma sono entrambi ugualmente rilevanti. L’articolazione degli argomenti delle consultazioni tematiche previste nel processo dei patti mondiali fa riecheggiare in ambito ONU questa stessa prospettiva poliedrica.

Infine – ma si tratta di un elemento fondamentale per un pensiero così attento alla concretezza come quello di papa Francesco – i quattro verbi puntano all’esperienza vissuta, quella dei migranti e quella di chi li accoglie, sia essa forzata (come accade in molti Paesi, specie del Terzo Mondo) o magari nata proprio sulla spinta degli appelli di papa Francesco. Come tutte le esperienze, anche queste sono piene di contrasti e contraddizioni (paure e speranze, gioie e fatiche, ecc.). Chiedere a ciascuno dei protagonisti a che cosa concretamente rimandano i quattro verbi può essere un modo per rileggere queste esperienze, rendendole comunicabili, conducendo a un loro rilancio e magari a qualche sorpresa. Tra tutte, potrebbe esserci quella di scoprire che sono proprio i più poveri (migranti e non) a essere più esperti di come si fa davvero ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare, in quanto portatori di una cultura più attenta al valore della relazione. Di questo papa Francesco è certamente convinto, come dimostrano le parole pronunciate in occasione dei vari Incontri mondiali dei movimenti popolari.

Partecipare al processo dei Patti mondiali

In questa prospettiva, come può la Chiesa cattolica contribuire al processo globale del sistema ONU? La questione, come rilevava il card. Parolin intervenendo a nome della Santa Sede proprio al Vertice del 19 settembre 2016, non è secondaria: «La mia Delegazione insiste sulla necessità di un dialogo transnazionale e di cooperazione tra le nazioni, le organizzazioni internazionali e le agenzie umanitarie. A tale riguardo, la collaborazione con le organizzazioni religiose e le comunità di fede è particolarmente utile, poiché si tratta di interlocutori interessati e capaci, che spesso sono i primi a rispondere ai movimenti transfrontalieri di rifugiati e migranti e alle persone internamente dislocate».

In questa linea la già citata Sezione Migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, consultando le Chiese locali e le organizzazioni cattoliche del settore e con l’approvazione di papa Francesco, ha articolato i quattro verbi in Venti Punti di azione: fondati sulle migliori esperienze (best practice) ecclesiali di tutto il mondo, rappresentano il contributo della Chiesa al percorso di elaborazione dei Patti mondiali e uno strumento di pressione nei confronti di Governi e organizzazioni internazionali. Il testo è disponibile nel sito della Sezione (<https://migrants-refugees.va/it>).

Sebbene rivolti ai Governi, questi punti interpellano anche Chiese locali e società civile, a cui chiedono di prendere posizione: non ci sarà un cambiamento delle politiche pubbliche nei confronti di migranti e rifugiati senza un profondo mutamento della cultura condivisa su questi temi, in direzione opposta alla sensibilità oggi dominante. Oltre al mutamento culturale, il cambio di orientamento delle politiche pubbliche avrà bisogno di una tenace azione di lobbying: i punti elaborati dalla Sezione Migranti e rifugiati possono rivelarsi uno strumento prezioso, anche per creare alleanze (nazionali e internazionali) capaci di sparigliare le carte di un dibattito che rischia di rimanere altrimenti scontato, prigioniero di posizioni precostituite, di una retorica stantia e di strumentalizzazioni fin troppo evidenti, ma da cui non si riesce comunque a uscire. Un ruolo di particolare importanza a questo riguardo è tanto quello delle Conferenze episcopali dei Paesi di destinazione e transito quanto di quelli di partenza, proprio per trasferire a livello politico il patrimonio accumulato dall’azione e dalla riflessione di chi opera sul campo.

L’Italia è in prima fila sulla questione delle migrazioni e non mancano le iniziative della società civile e anche della comunità ecclesiale. Il percorso globale dei Patti mondiali potrà aiutarci a rimettere in una più corretta prospettiva la nostra situazione nazionale e in questo modo forse anche a superare contrapposizioni o difficoltà a collaborare. Solo così sarà possibile influire su un processo a partire dall’esperienza concreta locale, per operare un cambiamento che inevitabilmente si ribalterà anche a livello nazionale e globale. Il processo dei patti mondiali ci chiede di pensare localmente, ma di agire (anche) globalmente, perché ci sia una cornice che renda più facile affrontare anche i conflitti locali e uscire dalla logica dell’emergenza, per realizzare azioni efficaci di lungo periodo.

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