Nuove foto aggiunte

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Silence"

«SILENCE». INTERVISTA A MARTIN SCORSESE

Antonio Spadaro

Quaderno 3996 pag. 565 - 586Anno 2016Volume IV
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Il 3 marzo 2016 ho suonato il campanello a casa Scorsese a New York: una giornata fredda, ma luminosa. Erano le 13,00. Vengo accolto in cucina, come in famiglia. La persona che mi fa entrare mi chiede se voglio un buon caffè. «Italiano», precisa. Accetto. Infreddolito. Ero arrivato a casa Scorsese un po’ in anticipo e avevo preferito attendere facendo il giro dell’isolato. L’idea di un caffè caldo — e italiano — mi attirava. Ad accogliermi in soggiorno è la moglie di Martin, Helen. Ho una forte sensazione di casa. Parliamo a lungo prima dell’arrivo del marito. Le offro un libro, Dear Pope Francis, il volume che raccoglie le domande di 30 bambini di tutto il mondo al Papa e le sue risposte. Le parlo del progetto e di come l’abbiamo realizzato. Helen lo sfoglia ammirata, si perde tra i disegni. Io la guardo. Siamo seduti sullo stesso divano. Mi dice del marito, della figlia diciassettenne, del film. Capisco che Silence è in qualche modo un lavoro familiare, nel senso che ha coinvolto tutta la famiglia.

A un certo punto arriva Martin con passo svelto e col sorriso accogliente. La nostra conversazione, prima di passare al film, si sofferma sulle nostre radici comuni. Siamo in qualche modo «paesani». Lui sa già che io sono di Messina. Lui mi dice che è di Polizzi Generosa. O meglio: lo era suo padre. Ma per lui è chiaro che le sue radici sono là. La Polizzi Generosa, che ha dato i natali a Giuseppe Antonio Borgese, uomo di pensiero, letterato e politico; al cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, segretario di Stato di Leone XIII, e quasi eletto Pontefice. Martin condivide con Vincent Schiavelli, Domenico Dolce e Michele Serra le radici familiari.

Ma non ricordiamo questi illustri compaesani. Ricordiamo invece la sua vita da figlio di immigrato nei quartieri di New York, la sua vita da chierichetto. Ne esce un miscuglio di legami di sangue, violenza e sacro. I ricordi da chierichetto in chiesa si fondono con quelli di ragazzino che, inconsapevolmente, fa della strada il suo primo set cinematografico: quello della sua immaginazione e dei suoi sogni. No, non siamo ancora nell’intervista. La nostra è una conversazione amichevole, che adesso mi rincresce di non aver registrato. Ma che così ho preservato nella sua natura di dialogo spontaneo. Così capisco come il sacro e la violenza abbiano per Scorsese una radice lontanissima. Per lui la religione non è degli angeli, ma degli uomini. Trionfa la grazia in ciò che mi dice. E i suoi occhi la rivelano con guizzi. «Sono circondato da una forma di grazia», mi dice con un sorriso. E guarda la moglie. Ma la grazia di cui mi parla sarebbe del tutto incomprensibile senza la polvere e le ombre. Mi fa vedere alcune foto del film. Sono bellissime.

Così iniziamo la conversazione su Silence. Vengono fuori le domande e gli accenni di risposta. Ecco avviato un laboratorio che è andato avanti per otto mesi con scambio di e-mail e sue registrazioni ad alta voce, poi trascritte fedelmente da un assistente. Questa, più che una intervista, è stata un esame di coscienza, un laboratorio di senso. E ciò grazie a lui. Io mi accorgo di essere stato un pretesto, un enzima. A volte mi chiedo se nel mio colletto da prete Martin Scorsese non abbia riconosciuto quello di padre Principe, di cui parla nell’intervista. Esco da casa Scorsese che sono le 3 e mezza, e fuori fa meno freddo di quando sono entrato. Costeggio a piedi Central Park per tornare a casa.

Rivedo Mr. Scorsese il 25 novembre a Roma. Sono le 5 del pomeriggio. Arrivo al suo albergo in anticipo e mi godo il tramonto in un cielo che sembra dipinto da un impressionista. Varco la porta dell’Hotel giusto alcuni istanti prima di Helen che rientra. Quando la vedo, ho come l’impressione di non averla mai lasciata. Ci sediamo a prendere un tè. Lo prendo io, in realtà: lei prende un bicchiere d’acqua. Parliamo, e quasi mi dimentico che ero lì per il marito. «Sta arrivando», mi dice. E io: «Chi?». Mi alzo e vado incontro a Mr. Scorsese, che arriva sempre col suo abito scuro, ma senza occhiali, che tiene in mano. La sua stretta è calda come il suo sorriso. Ci sediamo e con lui arrivano pane, grissini, olio, sale, bocconcini e il suo caffè americano con latte. Mangiamo tutti qualcosa. E riprendiamo la conversazione seduti su un tavolo all’angolo dell’elegante ma sobria sala messa a nostra disposizione. La nostra conversazione è a tre. Ma parte sempre dalla famiglia, dalla figlia in arrivo, dal fatto che Silence è stato davvero un film familiare, come avevo capito. Riprendiamo il discorso sulla grazia. Gli dico che dovrebbe leggere le storie di Flannery O’Connor, se non le ha ancora lette. Gli dico che sono stato nella sua farm a Milledgeville tre volte per entrare dentro le sue storie. Lei ha sempre visto la grazia nel «territorio del diavolo». Ho imparato a vederla anch’io. Lui sorride e mi dice che anche Paul Elie, che lo aveva intervistato per il New York Times, gli aveva consigliato di leggere la O’Connor. Conosco bene Paul e non mi sorprende che abbia avuto la stessa impressione. Mr. Scorsese prosegue dicendomi che in realtà ha letto Il cielo è dei violenti ed è rimasto sconvolto. Si è trovato dentro la storia. «E poi il linguaggio!», esclama. Già, è la lingua del profondo sud degli Stati Uniti, che è come un coltello che cerca la piaga per trovare lì la sua guaina. Gli dico che deve continuare. Magari ne nascerà qualcosa. E che deve leggere le lettere, The Habit of Being: questo è il titolo della loro raccolta.

Poi mi dice che nel frattempo ha avuto un’operazione agli occhi a Indianapolis, e che ha dovuto trascorrere molto tempo senza poter leggere. Allora si è procurato audiolibri e ha ascoltato Dostoevskij a più non posso. Mi parla dei Karamazov. E di come abbia goduto e lottato con la sua fantasia ascoltando. Io gli dico che papa Francesco ama anche lui Dostoevskij. «Interessante», mi dice. «E che cosa gli piace, in particolare?», mi chiede. Io gli dico che sono rimasto sorpreso quando Bergoglio me l’ha detto, ma il romanzo a lui più caro è Memorie del sottosuolo. Lui ha un sobbalzo. «Ma è anche il mio!», esclama. «Taxi driver è il mio Memorie del sottosuolo!».

Parliamo dell’importanza del dramma, dei romanzi drammatici, di quelli che rispecchiano la vita e non le idee. Con le idee non si fa discernimento. Non gli dico che la stessa frase me l’aveva detta il Papa nella mia intervista del 2013. Ma resto colpito profondamente. C’è una intelligenza letteraria che plasma sia la vita di un regista sia la vita di un papa. E tutto sommato non c’è nulla da stupirsi, in realtà. Torniamo ai ricordi di strada. Mi dice che per strada ha imparato a guardare. E girando i film, continua a imparare a guardare. «Anche questa è una grazia», mi dice. «Sì, gli rispondo, e in realtà essere toccati dalla grazia significa vedere le cose in un certo modo, in un modo differente». «I miracoli avvengono, ma a volte i miracoli sono i fatti della vita, e chi riceve i miracoli è in grado di decifrarli bene, di vederli con gli occhi giusti». Bisogna allenare gli occhi, dunque, per anni, a volte per decenni…

Come le è venuto in mente il progetto di «Silence»? So che è una sua passione, che l’aveva in mente da qualche anno… forse da venti o trent’anni…

Il romanzo di Shusako Endo mi è stato regalato nel 1988. Ho finito di leggerlo nell’agosto 1989 sul treno veloce da Tokyo a Kyoto, dopo avere ultimato di girare la parte di Van Gogh in Sogni di Akira Kurosawa. Non saprei dire se a quel punto fossi o non fossi effettivamente interessato a farne un film. La storia era così inquietante, mi toccava corde così profonde, che non sapevo nemmeno se avrei mai potuto fare un tentativo di affrontarla. Ma, col passare del tempo, in me qualcosa ha cominciato a dire: «Devi provarci». Abbiamo acquisito i diritti verso il 1990-91. Circa un anno dopo, insieme al mio amico e collega sceneggiatore Jay Coks, abbiamo cercato di buttare giù una bozza. Ma in effetti non ero ancora pronto a provarci. Tuttavia si trattava dell’inizio di un lungo processo che avrebbe portato alla prima bozza concreta della sceneggiatura, nel dicembre 2006: è stato allora che abbiamo delineato la concreta struttura di un film. In tutti quegli anni io non ero mai riuscito, assolutamente, nemmeno a immaginare che avrei fatto quel film. Sarebbe stato… presuntuoso da parte mia. Non sapevo come affrontarne i temi. E per giunta era difficilissimo mettere insieme un progetto concreto, una volta che avessimo avuto la bozza. Nel corso degli anni sono sorte così tante problematiche legali e finanziarie, che l’intera questione man mano aveva assunto l’aspetto di un nodo gordiano, e il tentativo di scioglierlo ha chiamato in causa una marea di persone e di tempo. Inoltre, c’era il problema degli attori. Avevo trovato attori che mi piacevano e che erano «di cassetta»: avevano dato l’assenso a fare il film, ma poi passava il tempo e non erano più «di cassetta», o erano troppo vecchi, o tutte e due le cose. Attori che garantivano un certo quantitativo di denaro necessario per fare il film, e attori che volevano interpretare i ruoli. Un processo molto, molto lungo — diciannove anni, per l’esattezza — con molte fermate e molte ripartenze.

Se guardo indietro, penso che questo lungo processo di gestazione sia diventato un modo di vivere con la storia e di vivere la vita — la mia vita — attorno a essa. Attorno alle idee che erano nel libro. E da quelle idee sono stato provocato a pensare di più sulla questione della fede. Guardo indietro e vedo che tutto nella mia memoria si riunisce come in una sorta di pellegrinaggio: è così che è andata. Sono stupito di aver ricevuto la grazia di essere in grado di fare il film adesso, a questo punto della mia vita.

Come ha agito in lei il desiderio di fare questo film? Si trattava di un’idea da realizzare nel futuro, oppure il desiderio di farlo in qualche modo ha ispirato il suo lavoro in questi anni?

Beh, come dicevo: è stato con me, ho vissuto con lui. Quindi credo abbia impregnato tutto quello che ho fatto. Le scelte che ho fatto. Le maniere di accostare certe idee e scene in altri film che ho fatto nel corso di questi anni. In altre parole, da una parte c’era il desiderio di fare proprio questo film; e dall’altra c’era la presenza del romanzo di Endo, di quella storia, come una specie di sprone a riflettere sulla fede; sulla vita e su come si vive; sulla grazia e su come la si riceve; su come alla fine esse possono essere la stessa cosa. Io penso… che, a sua volta, questo abbia dato più forza e chiarezza al mio modo concreto di affrontare il lavoro del film.

Per lei credere in Dio ed essere cattolico sono due cose diverse, se ho capito bene. Che cosa intende con questo?

A me interessa come le persone percepiscono Dio, o, per così dire, come percepiscono il mondo dell’intangibile. Ci sono molte strade, e penso che quella che si sceglie dipenda dalla cultura di cui si fa parte. La mia strada è stata, ed è, il cattolicesimo. Dopo molti anni in cui ho pensato ad altre cose, ho assaggiato questo e quello, mi trovo meglio da cattolico. Credo nei princìpi del cattolicesimo. Non sono un dottore della Chiesa, non sono un teologo in grado di ragionare sulla Trinità. E certamente non m’interessano le politiche dell’istituzione. Ma l’idea della risurrezione, l’idea dell’Incarnazione, il potente messaggio di compassione e amore… quella è la chiave. I sacramenti, se riesci ad accostarti a loro, a farne esperienza, ti aiutano a stare vicino a Dio.

Ora, mi rendo conto che questo suscita una domanda: sono un cattolico praticante? Se con ciò s’intende: «Sei uno che va abitualmente in chiesa?», la risposta è no. Tuttavia fin da ragazzo mi sono convinto che la pratica non è qualcosa che avviene soltanto in un edificio consacrato e nel corso di certi riti svolti a una certa ora del giorno. La pratica è qualcosa che accade fuori, sempre. Praticare, davvero, è fare qualsiasi cosa tu faccia, di buono o di cattivo, e riflettere su questo. Questa è la sfida. Comunque, il conforto e la profonda impressione del cattolicesimo quando ero molto giovane… direi che è sempre stato un riferimento.

Questo suo film, la scelta di un romanzo come «Silenzio», sembra porsi nell’alveo della spiritualità cristiana e dell’immaginario cattolico. Un film «alla Bernanos», in un certo senso. Che ne pensa?

Sono d’accordo sul fatto che sia nell’alveo della spiritualità cristiana, ma non sono sicuro di concordare sul paragone con Bernanos. Per me, tutto si riduce alla questione della grazia. La grazia è qualcosa che avviene nel corso della vita. Viene quando non te l’aspetti. Certo, lo sto dicendo come qualcuno che non ha mai attraversato la guerra, o la tortura, o l’occupazione. Non sono mai stato provato in quel modo. Ovviamente, ci sono state persone che sono state messe alla prova, come Jacques Lusseyran, il leader cieco della resistenza francese, che venne mandato a Buchenwald e tenne vivo lo spirito della resistenza tra i suoi compagni prigionieri: in effetti, abbiamo provato per molti anni a fare un film basato sul suo diario, E la luce fu. E c’è Dietrich Bonhoeffer. Elie Wiesel e Primo Levi sono stati capaci di trovare un modo per aiutare altri. Non sto dicendo che il loro esempio fornisca un qualche tipo di risposta definitiva alla domanda su dov’era Dio mentre tanti milioni di persone venivano macellate sistematicamente. Ma sono esistiti, hanno espresso atti straordinari di coraggio e di compassione, e li ricordiamo come luci nelle tenebre.

Non è possibile vedere attraverso l’esperienza di qualcun altro, ma soltanto attraverso la propria. Quindi, e so che potrebbe sembrare paradossale, sono entrato in sintonia con il romanzo di Endo, che era giapponese, in un modo che non mi è mai successo con Bernanos. In Bernanos c’è qualcosa di così duro, di inesorabilmente aspro. Invece, in Endo la tenerezza e la compassione sono sempre presenti. Sempre. Anche quando i personaggi non sanno che la tenerezza e la compassione ci sono, noi lo sappiamo.

Chi è Dio per lei? È fonte di punizione e di sgomento o è la sorgente della gioia e dell’armonia? Papa Francesco parla di Dio come Misericordia. Vuole sgombrare il campo e ripudiare qualsiasi immagine di un Dio torturatore… Dio può mai essere un torturatore?

Questo mi riporta a Bernanos, attraverso Robert Bresson e il suo adattamento di Diario di un curato di campagna. Ho visto quel film per la prima volta alla metà degli anni Sessanta. Avevo appena compiuto vent’anni e stavo crescendo, stavo superando l’idea di cattolicesimo che mi ero fatta da bambino. Come molti bambini, ero oppresso e profondamente impressionato dal lato severo di Dio che ci era stato presentato: il Dio che ti punisce quando fai qualcosa di male, il Dio tuoni e fulmini. È quello che Joyce tratteggiava in Ritratto dell’artista da giovane, un’altra opera che a quell’epoca ebbe un profondo effetto su di me.

Certo, nel Paese era un momento molto drammatico. Stava montando la vicenda del Vietnam, e quella era appena stata dichiarata una «guerra santa». E quindi in me, come in tanti altri, c’era molta confusione, dubbio e tristezza che, appunto, c’era, era parte della realtà della vita quotidiana. Fu a quei tempi che vidi il film di Bresson, Diario di un curato di campagna, e mi diede speranza. Ogni personaggio di quel film, forse a eccezione del vecchio prete, prova sofferenza. Ogni personaggio si sente punito, e la maggior parte di loro si infliggono punizioni l’un l’altro. A un certo punto, il prete ha un dialogo con una delle sue parrocchiane e le dice: «Dio non è un carnefice. Vuole che abbiamo pietà di noi stessi». E questo per me ha costituito una sorta di rivelazione. Era la chiave. Perché, anche mentre noi sentiamo che Dio sta punendoci e torturandoci, se riusciamo a dare a noi stessi il tempo e lo spazio di rifletterci sopra, ci rendiamo conto che siamo noi i soli carnefici, ed è verso di noi che dobbiamo essere pietosi. Ho incontrato una volta Bresson a Parigi, e ho avuto modo di dirgli che cosa aveva significato per me il suo film.

Dopo aver fatto Toro scatenato, mi sono reso conto del fatto che era proprio questo l’obiettivo che avevamo avuto in mente: era questo l’argomento del film. Non avevamo messo mano al film con un intento preciso: semplicemente, ci eravamo messi a fare un film su qualcuno che conduceva un tipo di vita che conoscevamo, in un mondo che conoscevamo. Jake punisce tutti quelli che gli stanno intorno, ma il solo che davvero sta punendo è se stesso. Quindi, alla fine, quando si guarda allo specchio, vede che deve avere pietà di se stesso. O, per dirla in un altro modo, deve accettare se stesso, e convivere con se stesso. E poi, forse gli diventerà più facile vivere con altre persone, e accogliere la loro bontà.

Quando ero ragazzo, ero davvero fortunato, perché avevo un prete straordinario, padre Principe. Da lui ho imparato tantissimo, e tra l’altro la pietà con se stessi e con gli altri. Certo, qualche volta lui incarnava la figura del severo precettore morale, ma il suo esempio era qualcosa di molto diverso. Quell’uomo era una vera guida. Magari parlava severamente, ma non mi ha mai forzato a fare qualcosa. Ti guidava. Ti ammoniva. Ti persuadeva. Aveva un amore davvero straordinario.

Un critico ha scritto dell’«ossessione di Scorsese per lo spirituale». È d’accordo sul fatto che lei è ossessionato dalla dimensione spirituale della vita?

Nel suo libro Absence of Mind, Marilynne Robinson ha scritto qualcosa che per me va dritto al cuore di questa questione: «Il dato di fatto della nostra natura — che siamo brillantemente creativi e altrettanto brillantemente distruttivi, per esempio — resiste e dobbiamo fare i conti con esso, anche se utilizziamo la parola “primati” per descrivere noi stessi in modo esaustivo». Ha certamente ragione. L’idea che qualsiasi cosa possa trovare spiegazione scientifica non mi sembra tanto ridicola quanto, invece, molto ingenua. Quando rivolgiamo la mente a considerare il mistero grande, stupefacente, del nostro mero esserci, del vivere e morire, l’idea stessa che si possa venire a capo di tutto per mezzo della scienza sembra inconsistente. È di questo che la Robinson scrive nei suoi saggi e nei suoi romanzi. E ciò che lei chiama «mente e anima» è, secondo me, vero e proprio cattolicesimo. Mente e anima è davvero tutto ciò che facciamo: il bene che facciamo e il male che arrechiamo. È il provarci, con gli altri in generale e con le persone che amiamo in particolare. E la mia particolare sfida è consistita nel cercare di andare oltre l’assorbimento nel mio lavoro, il mio auto-assorbimento, per essere presente per le persone che amo. Infatti io esprimo tutto questo — tutto ciò di cui abbiamo discusso — nel cinema. Vivere nel mondo della notorietà, della fama, dell’ambizione e della competizione è un’altra mia sfida. Ma, certo, anche se si fa parte di quel mondo — devo ammettere di farne parte, in una certa misura, e ho anche fatto qualche film su questo —, la dimensione spirituale della vita, come lei la chiama, è sempre presente. Carl Jung aveva affisso un’iscrizione latina sullo stipite della porta di casa sua, in Svizzera: Vocatus atque non vocatus deus aderit. Lo si chiami o no, Dio sarà presente. Questo dice tutto.

Lei è stato malato di asma. Anche papa Francesco ha un problema polmonare. Mi pare che chi ha il fiato corto diventi più sensibile. Lei ha imparato qualcosa dal suo fiato corto?

La prima cosa che va detta dell’asma è che quando è forte ci si sente davvero come se non si potesse riprendere fiato. Ci si sente letteralmente sull’orlo di andarsene, come se si stesse proprio andandosene ora. Ci sono state volte in cui proprio non c’era modo di respirare, e la dispnea era così forte e i miei polmoni così congestionati che ho cominciato a pensare: se questo è il modo in cui le cose andranno da ora in avanti, come farò a continuare? Questo pensiero in effetti ti attraversa la mente: vuoi soltanto una qualche pace.

Quando ero ragazzo, verso gli anni Cinquanta, c’era un certo modo di rapportarsi ai medici, almeno per gente come i miei genitori. Si dava retta a tutto quello che il medico diceva, non si andava mai a domandare un secondo parere; e seppure avessero desiderato un secondo parere, probabilmente non se lo sarebbero potuti permettere. E i dottori avevano un certo modo di considerare l’asma. C’erano alcune medicine e alcune cure, ma si dava più peso alla prescrizione di un certo stile di vita. Non si poteva fare sport. Nessun tipo di esercizio fisico. Mettevano in guardia perfino dall’eccedere nelle risate. Inoltre, ero allergico a tutto ciò che mi circondava — animali, alberi, erba —, sicché non potevo andare in campagna.

Insomma, il risultato era che dovevo fare una vita isolata: mi sentivo separato da tutti gli altri. Ne è derivato anche il fatto che ho passato un sacco di tempo con gli adulti, e questo mi ha reso consapevole e, penso, mi ha dato una comprensione accresciuta del mondo degli adulti. Mi ha dato una consapevolezza del ritmo della vita, delle preoccupazioni degli adulti, delle discussioni su ciò che era giusto o sbagliato, degli obblighi verso gli altri, e così via. Mi ha reso più consapevole: più consapevole dei sentimenti delle persone, più consapevole del loro linguaggio corporeo — di nuovo, la differenza tra parole e azioni —, più consapevole della loro sensibilità, e questo ha fatto sì che a mia volta coltivassi la mia sensibilità. Direi che sono diventato più acuto.

E, guardando il mondo dalla mia finestra…, il ricordo di avere guardato in strada e di avere visto tante cose, alcune belle e altre orribili, e alcune indescrivibili, per me è centrale.

L’altra faccia di questa medaglia è una certa intensità di concentrazione mentre lavoro, che mi mantiene fisso su ciò che è importante. Penso che l’essere rimasto appartato, la mia solitudine e la mia consapevolezza mi abbiano condotto a una risolutezza e a una capacità di sgombrare il campo da qualsiasi distrazione…, ed è questo che accade quando faccio un film. È paradossale, perché si tratta di una concentrazione che protegge una sensibilità, e ne consegue una certa insensibilità.

Lei ha affermato di avere vissuto sull’orlo della distruzione, di avere quasi toccato il fondo. Che cos’è la salvezza, secondo lei?

Nell’autodistruzione si nasconde un inganno: per capire la distruzione devi distruggere te stesso. E quindi in qualche modo si tratta di una forma di arroganza, di orgoglio… e alla fine hai distrutto te stesso. Nel mio caso, sono uscito da un momento autodistruttivo della mia vita, in qualche modo: credo di esserci finito dentro ingenuamente e di esserne venuto fuori in modo altrettanto ingenuo.

Sono stato chierichetto e ho servito la Messa ai funerali e nella funzione solenne del sabato per i morti. Un mio amico era figlio di un becchino. Ho visto morire la vecchia generazione venuta dalla Sicilia all’inizio del secolo, e per me è stata un’esperienza profonda. Quindi ho meditato molto sulla mortalità, non soltanto sulla mia. E a un certo punto mi sono fatto un po’ di male da solo. Ma poi ne sono venuto fuori, e il primo film che ho girato a quel punto è stato Toro scatenato.

Quindi, l’altro aspetto di questa questione è qualcosa di cui abbiamo già parlato a proposito di quel film. Accettare se stessi, convivere con se stessi, sforzarsi di esercitare un influsso positivo sulla vita della gente. La ritengo una buona definizione della «salvezza». Investe le persone che amiamo: la nostra famiglia, i nostri amici, i nostri cari. Bisogna sforzarsi di essere quanto più buoni possibile, e quanto più ragionevoli e compassionevoli possibile.

Ma, strada facendo, si impara anche qualcos’altro. In Sfida nell’Alta Sierra, di Sam Peckinpah, c’è una scena in cui Edgar Buchanan, un ministro ubriaco, sta sposando il personaggio di Mariette Hartley col suo uomo, e dice: «Voi avete avuto modo di comprendere qualcosa sul matrimonio: la gente cambia». Questo succede in ogni relazione. Succede nelle collaborazioni. Col passare del tempo, persone che conosciamo molto bene e con cui abbiamo lavorato per moltissimo tempo possono avere altri bisogni, altre cose che diventano importanti per loro, e occorre riconoscerlo e accontentarsi. Dobbiamo accettarle come sono, accettare come sono cambiate, e cercare di trarne il meglio. A volte bisogna riconoscere che devono andarsene per la loro strada. Una volta lo consideravo un tradimento. Ma poi ho capito che non era così. Era soltanto un cambiamento.

La parola «salvezza» è interessante. Infatti è qualcosa che nessuno può conoscere. Al momento della tua morte, se sarai cosciente, saprai se hai raggiunto la salvezza? Come lo saprai? Quel che è certo è che non lo sai mentre vivi. L’unica cosa che puoi fare è vivere una vita quanto più dignitosa possibile. Se cadi, devi rialzarti e riprovarci: un luogo comune, ma è vero. Per me, giorno e notte, ci sono alti e bassi, un susseguirsi di esaltazione e di oscurità, un dubbio che si fa autocritica. Ma in questo non bisogna esagerare: di nuovo, dobbiamo accettare noi stessi. Quindi è un processo continuo.

Dopo «Toro scatenato» lei ha pensato di andare a Roma e di viaggiare per girare documentari sulla vita dei santi. È vero? Come le è venuta in mente questa idea?

Sì, è vero. Nel 1980 o 1981, appena dopo aver finito Toro scatenato, pensavo seriamente che sarebbe stato il mio ultimo film. E a quei tempi, a causa dei film che Bertolucci e i Taviani e altri avevano fatto per la Rai, e in particolare dei film storici di Roberto Rossellini, pensavo che la televisione fosse il futuro del cinema. O, per dire meglio, la televisione mescolata con il cinema. Un intrattenimento, ma con un elemento di intrattenimento più profondo. Ma anche film che potessero in qualche modo insegnare. Anche questa ispirazione mi veniva da Rossellini. A lui è capitato di riferirsi a quei film come «film didattici». Sicché pensavo che la Rai sarebbe diventata il posto giusto per mettermi a esplorare un argomento che mi ha sempre assillato: che cos’è un santo? La mia idea era quella di fare una serie di film su diversi santi, anche su alcuni santi che forse non sono mai esistiti, che sono soltanto figure folkloristiche. Ma da dove vengono queste figure? Questo ci riporta a epoche che precedono quelle giudaico-cristiane. Perché c’è la necessità di quel tipo di intercessione? Perché si scopre che san Cristoforo, il santo patrono dei viaggiatori, non è mai esistito? Quando viaggiamo, siamo in pericolo, e quindi c’è bisogno di qualcosa o di qualcuno che ci protegga. E tuttavia, che dire dei veri santi? Che rapporto essi hanno con le persone, in generale e dal punto di vista spirituale? Com’è la loro vita quotidiana? In che cosa consiste? Questo mi riporta a un libro che padre Principe ci aveva dato, che parlava di un moderno san Francesco: un libro intitolato Mr. Blue, di Myles Connolly, che ha scritto e prodotto per il cinema e la Tv. Cercava di mostrare che nel mondo moderno si può vivere una buona vita, non in senso materiale, ma nel senso della dignità. Come Dorothy Day, e ciò che ha fatto con i Catholic Workers. Padre Principe la invitò a una communion breakfast, a parlare a un piccolo gruppo di anziani. L’ho intravista mentre andava via.

Quindi, queste cose si stavano sviluppando in me quando ho fatto Toro scatenato, che, come ho detto, intendevo come un mio addio alle pellicole cinematografiche ad alto budget. In quel momento aveva avuto un forte influsso su di me anche un altro film di Rossellini: Europa ’51, che ho visto in una versione ridotta. Rossellini si confrontava con la questione dell’essere un santo nel mondo moderno. Ci sono figure come Francesco, Caterina, Teresa (su quest’ultima ha fatto un film Alain Cavalier). Non erano quelli che chiamerei «santi attivisti», ed erano molto diversi da qualcuno, per esempio, come Padre Pio. La vera essenza di questi — compassione, amore, una vita a imitazione di Cristo — e l’interrogativo su come vivere una vita simile nel mondo moderno è ciò che Rossellini affrontava in quella pellicola. E io a quell’epoca non sapevo che egli aveva tratto l’ispirazione da Simone Weil, la quale, tra l’altro, non è stata misericordiosa con se stessa. Alla fine di Europa ’51, il personaggio di Irene trova una grande pace con se stessa e si sente molto utile. Quindi, quel film è stato davvero importante per me. Lo è stato altrettanto il suo Francesco, giullare di Dio, il più bel film su un santo che io abbia mai visto.

Di fatto poi le cose sono andate diversamente. Sono tornato a New York e ho fatto un altro film con Robert De Niro, Re per una notte. Poi ho provato a fare L’ ultima tentazione di Cristo, e quel progetto originario è stato messo da parte. L’industria era cambiata, e non sembrava più possibile fare quei film, quegli studi, sulle vite dei santi. Ma il mio interesse per i personaggi che hanno cercato di vivere la loro vita a imitazione di Cristo non si è mai affievolito, e sapevo che un giorno ci sarei tornato su. Molto di quell’energia e di quelle discussioni si è riversato su L’ ultima tentazione, quando siamo finalmente riusciti a farlo un paio di anni più tardi. E, naturalmente, il tutto è proseguito e ha continuato a svilupparsi, come ho detto, nel corso degli anni che ho vissuto con Silence.

Quale personaggio la colpisce di più del romanzo «Silenzio» di Endo e del suo film? Perché?

Quando ero più giovane, mi è venuto in mente di fare un film sull’essere un prete. Io stesso avevo avuto voglia di seguire le orme di padre Principe, per così dire, e di essere un prete. Ho frequentato un seminario minore, ma non sono andato oltre il primo anno. E mi sono reso conto, all’età di quindici anni, che la vocazione è qualcosa di molto speciale, che non si può acquisire, e non si può averla soltanto perché si vuole essere come qualcun altro. Dev’esserci una vera chiamata.

Ma se davvero si ha la chiamata, come si fa ad affrontare il proprio orgoglio? Se si è in grado di eseguire un rito in cui si produce la transustanziazione, allora sì: si è molto speciali. Tuttavia, è necessario anche qualcos’altro. Sulla base di ciò che ho visto e vissuto, un buon prete, oltre ad avere quel talento, quella capacità, deve sempre pensare anzitutto ai suoi parrocchiani. Quindi la domanda è: come fa quel prete a superare il suo ego? Il suo orgoglio? Volevo fare quel film. E ho capito che con Silence, quasi sessant’anni dopo, stavo facendo quel film. Rodrigues è direttamente alle prese con quella domanda.

Ma penso che il più affascinante e intrigante di tutti i personaggi sia Kichijiro. A volte, quando stavamo girando le scene, ho pensato: «Forse è “un po’” Gesù». In Matteo, Gesù dice: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Capita di trovarsi sul percorso una persona che ci ripugna: è Gesù. Naturalmente, Kichijiro è costantemente debole, e causa continuamente danni a se stesso e a molti altri, tra cui la sua famiglia. Ma poi, alla fine, chi c’è accanto a Rodrigues? Kichijiro. Egli era stato, si scopre, il grande maestro di Rodrigues. Il suo mentore. Il suo guru, per così dire. Ecco perché Rodrigues lo ringrazia alla fine.

E, naturalmente, riandando ai film che ho fatto, c’è chi mi ha fatto notare che Kichijiro è Johnny Boy di Mean Streets. Il personaggio di Charlie, interpretato da Harvey Keitel, deve prevalere sul suo orgoglio. Capisce che la spiritualità e la pratica non si limitano all’edificio della chiesa in senso letterale, che deve uscire fuori per la strada. Ma poi, naturalmente, non si può scegliere la propria penitenza. Lui pensa di poterlo fare, ma la penitenza arriva quando meno te lo aspetti, da una direzione che non si può mai prevedere. Questo è il motivo per cui Johnny Boy e Kichijiro mi affascinano. Diventano ricettacoli di distruzione o di salvezza. Molto di questo deriva da ciò che avevo osservato quando ero ragazzo, in particolare ciò che succedeva tra mio padre, che si chiamava Charlie, e suo fratello Joe.

Padre Rodrigues e padre Ferreira sono due facce della stessa moneta, oppure sono due monete diverse, incomparabili?

Non sappiamo in che cosa il padre Ferreira storico abbia o non abbia creduto, ma nel romanzo di Endo sembrerebbe che avesse effettivamente perso la fede. Forse un altro modo di vedere le cose è che non riusciva a superare la vergogna di aver rinunciato alla propria fede, anche se lo ha fatto per salvare vite umane.

Rodrigues, d’altra parte, è uno che rinnega la sua fede e, più tardi, la riacquista. Questo è il paradosso. Per dirla semplicemente, Rodrigues sente Gesù che gli parla, Ferreira invece no, ed è questa la differenza.

Una volta lei, ricordando suo padre, ha detto che in qualsiasi cosa le dicesse c’era sempre un risvolto morale: chi ha torto? Chi ha ragione? I buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Qui chi sono i buoni? Chi sono i cattivi? E al mondo ci sono buoni e cattivi?

Entrambi i miei genitori provenivano da famiglie numerose. Mio padre aveva quattro fratelli, e Joe era il più giovane. Ha vissuto sotto di noi in Elizabeth Street, con la moglie e i figli. I miei nonni — i genitori di mio padre — abitavano due porte più in basso, e mio padre andava a trovarli ogni sera. Avrebbero discusso di questioni familiari, dell’onore del nome Scorsese, un genere di cose che proprio non capivo: erano questioni del vecchio mondo, e io sono nato qui. Erano persone oneste, cercavano di vivere una vita onesta. Tuttavia in quel mondo era presente la criminalità organizzata, sicché la gente doveva camminare sul filo del rasoio: non ci si poteva mettere con loro, ma non ci si poteva neanche schierare contro di loro. Mio zio tendeva a stare con loro. Era uno scapestrato, proprio come Johnny Boy: si metteva sempre nei guai, è andato varie volte in galera, doveva sempre dei soldi agli usurai. Emanava una sensazione di violenza. Così, mio padre se lo prese in carico. Ogni giorno, in quell’appartamento, ho potuto vedere mio padre cimentarsi con questa cosa: come trattare il fratello in un modo che fosse retto e giusto. Si è fatto carico di tutto. Mia madre a volte era davvero esasperata e diceva: «I tuoi fratelli non ti possono dare una mano?». L’hanno fatto, in una certa misura, ma erano andati tutti a vivere fuori del quartiere. Mio padre e Joe erano gli unici rimasti. E così mio padre ha affrontato tutto da solo. E questo significava impegnarsi con tutti, da tutte le parti: discussioni, negoziati, mediazioni, assicurarsi che lo zio se la cavasse, a volte dargli soldi. Si è messo davvero in trincea per mio zio. E si è sempre sentito in obbligo: l’obbligo di prendersi cura di suo fratello. Alcuni degli altri membri della famiglia se ne sono lavati le mani, altri se ne sono andati; quindi tutto è ricaduto su di noi. Ed è stato molto, molto difficile. Ho voluto bene a Joe, ma stargli vicino è stata proprio dura. Tutto ciò solleva davvero la domanda: sono forse il custode di mio fratello? Era questo il tema che ho affrontato in Mean Streets.

«Silence» sembra la storia di un’intima scoperta del volto di Cristo, un Cristo che sembra chiedere a Rodrigues di calpestarlo per salvare degli altri uomini, perché è per questo che è venuto nel mondo… Qual è il volto di Cristo per lei? È il «fumi-e», l’immagine calpestata, come lo descrive Endo? O è il Cristo glorioso della maestà?

Ho scelto il volto di Cristo dipinto da El Greco, perché ho pensato che fosse più compassionevole di quello dipinto da Piero della Francesca. Nella mia gioventù, man mano che crescevo, per me il volto di Cristo era sempre un conforto e una gioia.

Lasciando da parte «L’ultima tentazione di Cristo», secondo lei quale film nella storia del cinema ritrae meglio il vero volto di Cristo?

Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto.

C’è stata una situazione in cui invece ha sentito Dio vicino, anche se taceva?

Quando ero giovane, e servivo la Messa, non c’era alcun dubbio che avvertissi un senso del sacro. Ho cercato di trasmetterlo in Silence, durante la scena della Messa nella casa colonica a Goto. In ogni caso, mi ricordo che uscivo per strada dopo la fine della Messa e mi chiedevo: com’è possibile che la vita vada avanti come se niente fosse accaduto? Perché non è cambiato niente? Perché il mondo non viene scosso dal corpo e dal sangue di Cristo? È questo il modo in cui ho sperimentato la presenza di Dio quando ero molto giovane.

Nel 1983 sono stato in Israele a cercare le ambientazioni per L’ ultima tentazione. Sorvolavo il territorio a bordo di piccoli aerei monomotore. Volare non mi piace affatto, tantomeno su aerei piccoli. Quindi tenevo in mano alcuni oggettini religiosi che mia madre mi aveva dato anni prima. Ero nervoso, molto teso. Andavo avanti e indietro da Tel Aviv alla Galilea, da Betsaida a Eilat. E a un certo punto mi hanno portato nella chiesa del Santo Sepolcro. Ci sono stato con il produttore, Robert Chartoff, scomparso di recente. Sono stato sulla tomba di Cristo. Mi sono inginocchiato, ho detto una preghiera. Quando sono uscito, Bob mi ha chiesto se mi sentissi un po’ diverso. Ho risposto di no, che ero soltanto impressionato dalla geografia del luogo, e da tutti gli Ordini religiosi che avevano accampato pretese su di esso. A quel punto dovevamo volare di nuovo fino a Tel Aviv. Ho preso l’aereo. Ancora una volta, ero molto nervoso, e ho stretto di nuovo in mano tutti quegli oggetti religiosi di mia madre. E improvvisamente, mentre eravamo in volo, mi sono reso conto che non ne avevo più bisogno. Ho avvertito una sensazione totale di amore, e la sensazione che se qualcosa fosse dovuto accadere, non sarebbe più accaduto. È stato straordinario. E mi sento abbastanza fortunato per averlo sperimentato una volta nella mia vita.

Voglio parlare anche della nascita di mia figlia Francesca. È nata con un parto cesareo. Io c’ero, guardavo tutto quello che succedeva. E poi, all’improvviso, mi è stato detto di uscire. Mi hanno accompagnato in un’altra stanza e ho guardato attraverso una finestra rettangolare. Ho visto che c’era molta urgenza, un’attività frenetica, fino a quando non è uscito quello che mi sembrava un corpo senza vita. Poi l’infermiera è venuta fuori, piangendo, e mi ha detto: «Ce la farà». E mi ha abbracciato. Non sapevo se stesse parlando di mia moglie o della bambina. Poi è venuto il dottore. Si è appoggiato al muro, si è lasciato scivolare verso il basso, accovacciato, e ha detto: «Si può pianificare e prevedere tutto, e poi arrivano venti secondi di terrore. Ma ce l’abbiamo fatta». Le avevano quasi perdute entrambe. E la cosa successiva che ho saputo, è stata che mi hanno messo quel fagottino tra le mani. Ho guardato il suo volto, e lei ha aperto gli occhi. Tutto è cambiato in un istante.

Mi fa ricordare quello straordinario passo del romanzo di Marilynne Robinson, Gilead, che ho letto mentre giravamo Silence. Il reverendo morente descrive la meraviglia che ha provato quando ha visto il viso di sua figlia per la prima volta. «Ora che sono in procinto di lasciare questo mondo», dice, «mi rendo conto che non c’è nulla di più straordinario di un viso umano. […] Ha a che fare con l’Incarnazione. Quando hai visto un bambino e lo hai tenuto in braccio, ti senti obbligato nei suoi confronti. Ogni volto umano esige qualcosa da te, perché non puoi fare a meno di capire la sua unicità, il suo coraggio e la sua solitudine. E questo è ancora più vero nel caso del viso di un neonato. Considero quest’esperienza una sorta di visione, altrettanto mistica di tante altre». Posso dire, per esperienza personale, che è assolutamente vero.

La compassione è istinto o amore?

Penso che la chiave sia la negazione dell’io. In Mean Streets Charlie cade nella trappola di pensare che prendersi cura di Johnny Boy possa essere la sua penitenza, serva alla sua redenzione personale, sia a suo uso spirituale. Questo ci riporta al fatto che i buoni sacerdoti che ho conosciuto hanno sempre messo da parte il loro ego. Quando lo si fa, restano soltanto le necessità — le necessità degli altri — e vengono meno le domande sulla penitenza da scegliere o su ciò è o non è la compassione. Esse diventano prive di significato.

Nella storia di «Silence» c’è moltissima violenza fisica e psicologica. Che cosa c’è nella rappresentazione della violenza? Nei suoi film ce n’è tanta. Che cosa rappresenta di specifico la violenza in questo film?

Per fare riferimento a una sua domanda precedente, io sono ossessionato dallo spirituale. Sono ossessionato dalla domanda su ciò che siamo. E questo significa guardarci da vicino, guardare il bene e il male di noi. Possiamo nutrire il bene in modo che, ad un certo punto futuro nell’evoluzione del genere umano, la violenza, forse, cesserà di esistere? Comunque sia, per il momento, la violenza è qui. È qualcosa che facciamo. Mostrarlo è importante. Così non si fa l’errore di pensare che la violenza sia qualcosa che fanno altri, che fanno «le persone violente». «Ovviamente io non potrei mai farlo». E no: invece, in realtà, potresti. Non possiamo negarlo. Quindi, ci sono persone che restano sconvolte dalla loro stessa violenza, o che se ne entusiasmano. Si tratta di una vera e propria forma di espressione, in circostanze disperate, e non è divertente. Qualcuno dice che Quei bravi ragazzi è divertente. Le persone sono divertenti, la violenza non lo è. Un sacco di gente semplicemente non capisce la violenza, perché proviene da culture o sottoculture da cui essa è molto distante. Ma io sono cresciuto in un luogo dove essa faceva parte della vita, e mi era molto vicina.

Nei primi anni Settanta stavamo venendo fuori dall’era del Vietnam ed era la fine dei fasti della vecchia Hollywood. Bonnie e Clyde e poi, ancora di più, Il mucchio selvaggio, sono stati una rivelazione. Quei film ci hanno parlato, non necessariamente in un modo piacevole. La violenza è, secondo me, una parte dell’essere umano. Nei miei film l’umorismo viene dalla gente e dai loro ragionamenti, o dalla loro assenza. La violenza e la volgarità. La volgarità e l’oscenità esistono, il che significa che sono parte della natura umana. Ciò non vuol dire che, di conseguenza, siamo intrinsecamente osceni e violenti: vuol dire che questo è un possibile modo di essere umani. Non è una buona possibilità, ma è una possibilità.

Per lei fare un film è come dipingere un quadro. La fotografia, le immagini, in questo film hanno un determinato valore. Come fa la fotografia a farci vedere lo spirito?

Si crea un’atmosfera attraverso l’immagine. Ci si colloca in un ambiente dove si può sentire l’alterità. E sono queste le immagini, le idee e le emozioni che si traggono dal cinema. Ci sono certe cose intangibili che le parole, semplicemente, non possono esprimere. Quindi, nel cinema, quando si monta un’immagine insieme a un’altra, nella mente si ottiene una terza immagine completamente diversa: una sensazione, e l’impressione, un’idea. Quindi io penso che l’ambiente che si crea è una cosa, e che questo riguardi la fotografia. Ma è nel congiungersi delle immagini che il film ci cattura e ci parla. È l’editing, ed è l’azione del fare cinema.

Dove ha girato «Silence»? Da quanto ho sentito, a Taiwan. Che cosa l’ha spinta a scegliere quel posto?

Ci sono voluti molti anni per riuscire a fare Silence, per molte ragioni e, prima di scegliere Taiwan, abbiamo guardato un bel po’ di possibili location in tutto il mondo. Eravamo partiti dai luoghi reali in Giappone, dove si svolge il romanzo di Shusaku Endo — Nagasaki, Sotome, Unzen Hot Springs —, ma alla fine abbiamo lasciato stare perché le spese per girare lì sarebbero state proibitive. Oltre al Giappone, il mio scenografo, Dante Ferretti, ha cercato in Nuova Zelanda, a Vancouver, in California del Nord e poi, finalmente, ha individuato la sede di Taiwan, che ha paesaggi straordinari e coste praticamente intatte, con un aspetto simile a quello dei luoghi del romanzo. Ci siamo subito resi conto che si trattava del posto giusto per girare il film.

Questo film si ispira ad altri film, almeno in alcune parti? Se sì, a quali?

Sostanzialmente ho fatto da solo. Ho dovuto trovare la mia strada. Ma in generale sono stato ispirato da molti film. Molti film asiatici. Molti film europei. Molti film americani. Ci vivo insieme. Sono con me. Alla fin fine non è una questione di questo o quel film. Su alcuni sono tornato molte volte: Sentieri selvaggi, per esempio, o La donna che visse due volte, o 8½. I film di Rossellini: Roma città aperta, Paisà e Viaggio in Italia. Ordet, invece, l’ho visto soltanto una volta. Non posso riguardarlo. È così puro, così bello, così sconvolgente. In ognuno di questi casi, ci si sente spiritualmente trasportati e trasformati. Nessuno di questi film si limita al mero intrattenimento.

Secondo lei, c’è un suo film che si può accostare e confrontare con «Silence», perché di significato simile oppure opposto?

Direi che Toro scatenato è simile. Anche Mean Streets. E forse The Departed è l’opposto di Silence. La sceneggiatura di Bill Monaghan mi aveva colpito perché era scritta dal punto di vista del cattolicesimo irlandese di Boston, molto diverso da quello in cui sono cresciuto. Alla fine di The Departed ci si trova in un ground zero morale. Non c’è nessun posto dove andare, se non verso l’alto. E quanto ai sacrifici dei personaggi, in particolare del personaggio di Billy, interpretato da Leonardo Di Caprio, Roger Ebert ha detto che è come se si potesse sentire Billy mentre, nel confessionale, dice: «Sapevo che era male, padre, ma non riuscivo a farne a meno. Sono rimasto bloccato. Sapevo che era sbagliato, ma che cosa potevo fare?». Per me, tutto ciò riguardava molto da vicino l’11 settembre, il riesame della nostra cultura e della nostra vita sotto una nuova luce. Mi sembrava fosse da quel punto che saremmo dovuti partire per ricominciare da capo in campo morale. Ma non l’abbiamo fatto.

In Toro scatenato Jake combatte tutto e tutti. Non importa dove si trova: il ring, la palestra, la strada, la camera da letto, il soggiorno… ovunque sia, punisce se stesso e se la prende con tutti. Ovunque, continuamente. Come Kichijiro. La differenza è che Kichijiro è costretto a fare quello che fa, e Jake no.

Ci sono stati una situazione o un evento, durante la preparazione di questo film, che l’hanno fatta particolarmente riflettere?

Come dicevo, ho vissuto con il film per tanto tempo, ed è stato prospettato e rinviato così tante volte: è stato questo a guidare la riflessione.

Ci sono persone di fede accanto a lei, che l’hanno sostenuta nella ricerca e poi nella realizzazione di questo film?

Tutto è cominciato con l’arcivescovo Paul Moore della Chiesa episcopaliana di New York, alla cattedrale di St. John the Divine: è stato lui, negli anni Ottanta, a consigliarmi di leggere il romanzo. Abbiamo organizzato una proiezione di L’ ultima tentazione per lui, senza sapere come avrebbe reagito, e noi due abbiamo avuto una bella conversazione sul film. Al momento di congedarci, mi ha detto che voleva darmi un libro: si trattava proprio di Silenzio.

Il padre gesuita James Martin, che ha lavorato con Andrew Garfield e lo ha introdotto agli Esercizi spirituali, è stato estremamente importante per noi.

Durante la produzione abbiamo avuto il sostegno e l’incoraggiamento di molti sacerdoti a Taipei, diversi dei quali hanno fatto da consulenti tecnici del film, facendo in modo che Andrew e Adam risultassero autentici nell’amministrare i sacramenti. Cito, fra gli altri, i padri gesuiti Jerry Martinson (Kuangchi Program Service) e Alberto Nuñez Ortiz (che ci è stato presentato dalla Fu Jen University); l’arcivescovo Paul Russell; e padre Ivan Santus, della Nunziatura di Taipei.

Abbiamo avuto diversi consulenti storici, tra cui due gesuiti hanno dato un prezioso aiuto nelle ricerche per il film: i gesuiti David Collins, storico presso la Georgetown University, e Shinzo Kawamura, della Sophia University.

Van C. Gessel, un docente di lingua giapponese presso la Brigham Young University, ha tradotto la maggior parte dell’opera di Shusaku Endo in inglese ed è stato di grande aiuto per il film, dandoci un collegamento diretto con Endo. Ci siamo rivolti a lui a partire dal 2011.

Nel 2009, quando ho visitato il Memoriale dei ventisei martiri cristiani a Nagasaki, ho incontrato il gesuita argentino Renzo De Luca, che è stato molto disponibile nel fornire la pergamena della «Madonna delle nevi», che appare nel film. Nella fase iniziale, il mio ricercatore ha incontrato il padre gesuita Antoni Üçerler.

I nostri due principali consulenti storici sono cresciuti entrambi nella religione cattolica e sono stati coinvolti nel film dal 2011. Jurgis Elisonas, un’autorità

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