Ridare senso alle nostre parole

Ridare senso alle nostre parole

Ridare senso alle nostre parole

Diversi fatti di cronaca recente, tra loro molto diversi, accendono un campanello di allarme sulla qualità della

Giuseppe RIGGIO

C’è qualche elemento in comune tra il confronto politico in Italia dopo la più “brutta” campagna elettorale di sempre secondo l’opinione di tanti commentatori e semplici cittadini, lo scandalo Cambridge Analytica, che ha minato seriamente la credibilità di Facebook, o gli scioperi a ripetizione dei ferrovieri francesi, che stanno creando enormi disagi ai cittadini e danni consistenti all’economia transalpina? Si tratta di eventi tra loro lontani per molti fattori, eppure li unisce un fil rouge, per quanto apparentemente poco evidente, di cruciale rilevanza per la nostra società: ciascuno di essi segnala un carente o distorto funzionamento della comunicazione, rivelando un nodo problematico che getta ombre sullo stato di salute di questo tassello essenziale della nostra vita insieme. In queste vicende sono messe alla prova la qualità e la profondità della circolazione della parola (idee, vissuti personali o di gruppi, informazioni), ossia i pilastri di ogni autentica comunicazione, dal livello interpersonale più ristretto fino a quello più ampio dell’intera società. Gli esempi indicati mostrano, infatti, che alcuni aspetti del circuito comunicativo di scambio e condivisione, cruciali per le dinamiche della vita sociale e politica, sono entrati in sofferenza e tutti noi ne paghiamo le conseguenze.
La povertà del confronto e il discredito dell’interlocutore
Non servono molti argomenti per rendersi conto della fragilità della comunicazione quando si pensa alla povertà di idee e proposte della recente campagna elettorale, tutta giocata su slogan e promesse in buona misura utopici, soprattutto in campo economico, senza tenere davvero in conto la realtà italiana. Una situazione che si sta prolungando nel dibattito politico postelettorale, in cui prevalgono i ragionamenti sulle alleanze possibili per formare un nuovo Governo, ma latitano i confronti seri sui contenuti dei programmi da realizzare.
Al carente dibattito sulle proposte concrete per il futuro del Paese fa da contraltare una comunicazione sovente urlata e aggressiva, che mira al discredito degli avversari politici, o addirittura al rifiuto netto e aprioristico di riconoscere altri partiti come interlocutori legittimi. È del tutto naturale che ci siano diversi livelli di affinità e vicinanza tra le forze politiche, e quindi di collaborazione e alleanza o al contrario di inconciliabilità programmatica; ben diverso è, però, disconoscere in radice la legittimità di un altro partito, che pur si colloca all’interno del quadro democratico fissato dalla nostra Costituzione. Quando ciò accade si infligge una ferita al tessuto democratico del Paese e si finisce per squalificare anche quanti tra i cittadini lo hanno sostenuto e si sono riconosciuti in esso. Si ragiona e si opera secondo una logica di esclusione che conduce inevitabilmente a minare le fondamenta sociali del vivere insieme.
In effetti, nel caso del discredito o della delegittimazione unilaterale dell’avversario, ci troviamo di fronte a qualcosa che è ben diverso dal confronto preelettorale, anche duro e deciso, tra posizioni politiche diverse, lontane o addirittura opposte. Non si entra neanche nel confronto sulle proposte, non ci si cimenta nella “battaglia delle idee”, ma si costruisce un clima di sospetto, sfiducia e rigetto dell’altro che fa venir meno le condizioni basilari perché possa svolgersi un effettivo dialogo.
Su quali fondamenta si può realizzare un’effettiva e feconda comunicazione se si sfugge al confronto sul piano delle proposte e non si riconosce alcun credito alla parola altrui?
La manipolazione della Rete
Quanto recentemente emerso sulle attività della società di consulenza e marketing britannica Cambridge Analytica accende i riflettori sull’attuale funzionamento della Rete e i relativi rischi, non sempre facili da individuare. La vicenda è largamente nota: Cambridge Analytica ha acquisito le informazioni personali di circa 50 milioni di utenti di Facebook, violando le regole sulla raccolta dei dati personali, probabilmente per sfruttarle nella campagna elettorale statunitense che ha visto prevalere Donald Trump. Non è ancora accertato chi e in che misura se ne sia servito e se esse abbiano effettivamente inciso sull’esito elettorale, ma l’intera vicenda ripropone all’attenzione generale la questione della salvaguardia della democrazia nell’epoca dei big data e di Internet.
Dal 2016 ci sono divenuti familiari nuovi termini come fake news o post-verità (cfr Costa G., «Orientarsi nell’era della post-verità», in Aggiornamenti sociali 2017 [2] 93-100) e abbiamo imparato (o dovremmo averlo fatto) che la realtà presentataci dai social media è tagliata su misura per ciascuno di noi: ci offre in continuazione contenuti corrispondenti a quanto abbiamo già manifestato di apprezzare attraverso un like o una condivisione, facendoci così vivere in una bolla che rispecchia le nostre attuali preferenze, ci “protegge” dal confronto con opinioni o proposte differenti, ci isola in un microsistema autoreferenziale abitato solo da persone, istituzioni, organi di informazione, partiti, ecc., che sono sulle nostre posizioni. Pensiamo di avere una finestra sul mondo nella sua integralità e invece ne guardiamo solo un pezzetto, attraverso una lente che non abbiamo scelto consapevolmente, ma che è stata confezionata per noi.
Come molte altre realtà, Internet offre numerosi vantaggi, ma si presta anche a possibili abusi, più difficili da individuare quando ci si misura con uno strumento relativamente nuovo. La stragrande maggioranza dei cittadini fa quotidianamente ricorso ai siti web e ai social media per comunicare e informarsi, per distrarsi od organizzare le proprie attività, ma in larga parte siamo utenti disattenti, impreparati e vulnerabili, propensi a dare credito a quanto leggiamo e vediamo, senza preoccuparci di verificare la bontà della fonte, anche perché molte volte non disponiamo degli strumenti necessari per operare il vaglio tra un’informazione corretta e un’altra manipolata.
Nel Messaggio per la 52ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, papa Francesco indica come antidoto contro le falsità il comportamento delle «persone che, libere dalla bramosia, sono pronte all’ascolto e attraverso la fatica di un dialogo sincero lasciano emergere la verità; persone che, attratte dal bene, si responsabilizzano nell’uso del linguaggio». Il riferimento all’uso del linguaggio ci fa fare un altro passo. Sempre più spesso, e in particolare in Rete, l’incontro e il confronto con chi è portatore di idee diverse si risolve in reazioni scomposte, rabbiose, cariche di violenza. Si ricorre a parole che feriscono, come denunciato dal Manifesto della comunicazione non ostile (<http://paroleostili.com>), che propone al contrario uno stile responsabile di presenza nella realtà digitale. Il dibattito sulle idee è spesso rifiutato a priori, le posizioni altrui sono ignorate nella sostanza o sono attaccate facendo ricorso ad argomenti di basso profilo. Scorrendo i commenti degli utenti agli articoli pubblicati on line o nelle pagine Facebook e Twitter di alcune istituzioni o personalità pubbliche ci si imbatte soprattutto in insulti, attacchi personali o addirittura minacce. Sembra non esserci alcuno spazio per le posizioni altrui, nemmeno per l’ipotesi che chi ha un pensiero diverso dal mio possa avere qualche buon argomento o un punto di vista rilevante da ascoltare nell’analisi dei problemi e nella ricerca delle soluzioni. La comunicazione è dominata da una logica “totalitaria”, secondo cui il “mio” punto di vista costituisce l’unico possibile e vero, che non ammette alternative valide.
Quale comunicazione è possibile oggi se l’intero sistema comunicativo ci restituisce una visione parziale e accomodante della realtà? Come difenderci dalle manipolazioni possibili in Rete? Come interagire senza lasciare che la scena sia occupata dalle spinte rabbiose e distruttive?
La voce degli esclusi
Il terzo esempio che abbiamo menzionato ci porta in Francia e sposta la nostra attenzione sulle dinamiche sociali. Gli scioperi dei ferrovieri francesi, annunciati fino a fine giugno, hanno avuto una risonanza anche fuori dai confini transalpini per l’impatto sulla vita dei cittadini e i danni alle imprese, ma non sono le uniche proteste in corso in questo momento. Da alcuni mesi la Francia è divenuta il palcoscenico di scioperi di varie categorie di lavoratori (case di cura, Air France, settore energetico, funzionari pubblici) e gli studenti hanno occupato diverse università.
Non sono mancati i commentatori che hanno accostato gli eventi di questi giorni a quelli del Sessantotto. Al di là della suggestione esercitata dalla ricorrenza dell’anniversario (cfr l’articolo di Guido Formigoni, pp. 406-414), va certamente riconosciuto un elemento che accomuna i fatti del maggio Sessantotto con quelli odierni: la necessità di alcune componenti sociali di far sentire la propria voce e difendere i propri diritti, opponendosi alle politiche o alle decisioni prese dalle istituzioni o dai datori di lavoro. Ma vi sono anche elementi di discontinuità. Nel Sessantotto il concorso di una serie di condizioni favorì l’incontro e la saldatura tra istanze e richieste condivise da una parte cospicua degli studenti e dei lavoratori. Ma oggi è ancora possibile che ciò accada? La frammentazione delle posizioni personali, la scarsa capacità delle realtà associative di riscuotere l’adesione dei più giovani, la realtà di un mercato del lavoro che rende fragili quanti occupano le posizioni più precarie (su questi temi cfr Gianfranco Zucca, pp. 366-376) sollevano interrogativi profondi. In un contesto di crisi, lo sciopero resta uno strumento per difendersi, ma non è disponibile per chi è tagliato fuori ed escluso. La recente sentenza del Tribunale del lavoro di Torino, che ha respinto le richieste dei lavoratori di una nota azienda di distribuzione di cibo ordinato tramite una app, mostra chiaramente quanto sia difficile per chi occupa le posizioni più deboli trovare adeguate ed effettive tutele.
Lo sciopero proclamato dai ferrovieri francesi intende assicurare le attuali condizioni contrattuali anche ai futuri dipendenti, ma
di quali strumenti disponiamo per assicurarci che anche i più deboli possano esprimere il proprio punto di vista all’interno dei circuiti comunicativi e decisionali della nostra società?
Prendersi cura della comunicazione
Gli interrogativi emersi ci presentano un quadro fragile e preoccupante della comunicazione. Tra le tante realtà che richiedono di essere attivamente custodite, senza essere date per scontate, vi è anche la circolazione delle idee e delle informazioni nella sfera pubblica, la comunicazione autentica e di qualità del proprio pensiero, della propria visione sul futuro migliore per la società e sulle proposte per realizzarlo. Sarebbe miope derubricare a semplici mezzi, strumentali rispetto a un obiettivo più importante, la comunicazione e le modalità con cui avviene nel rispetto della libertà e della dignità delle persone, tenendo conto anche delle finalità degli operatori del settore e delle opportunità di accesso per i più deboli. Ci troviamo, invece, di fronte a un vero e proprio bene comune, socialmente rilevante, essenziale per i singoli e per l’insieme della società, oggi minacciato.
L’attenzione da riservare alla comunicazione non è perciò fine a se stessa: prendersene cura significa, in fondo, occuparsi della comunità, porre le fondamenta perché possa esservi una società inclusiva, giusta e orientata al bene di tutti. Scegliere di comunicare e di farlo in un modo rispettoso, aperto, attento ai contenuti significa mettersi in una prospettiva ben precisa: la consapevolezza che c’è un di più che ci accomuna che va custodito e fatto crescere. Non è un caso che la radice latina di comunicazione sia la stessa di comunità: entrambe rinviano al commune, a un dato di fondo che tiene insieme realtà diverse su una base condivisa, appunto comune, in cui alla dimensione della collaborazione suggerita dal cum si assomma la consapevolezza che questo lavorare insieme è allo stesso tempo un dono e un compito, che interpella la nostra responsabilità, come fa trasparire la ricchezza semantica del munus latino.
La questione allora diventa riportare alla luce i pilastri di una comunicazione autentica per dare una prima risposta agli interrogativi che abbiamo incontrato. L’anniversario sessantottino ci può venire in soccorso attraverso la chiave interpretativa data di quegli eventi dal gesuita e intellettuale francese Michel de Certeau (1925-1986), che lo descrisse con un’affermazione sorprendente: «Lo scorso maggio [1968], la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia» (La presa della parola e altri scritti politici, Meltemi, Roma 2007, p. 37). L’equiparazione del Sessantotto all’evento simbolico per eccellenza della Rivoluzione francese trasmette l’idea che una liberazione ha avuto luogo e una novità si è instaurata. La liberazione non riguarda alcuni prigionieri fisici, come erano quelli delle segrete della Bastiglia, ma la parola di quanti nella società del tempo erano privati dalla possibilità di far sentire la propria voce, incasellati in funzioni decise da quanti detenevano il potere politico e culturale. La novità consiste nell’affermazione del proprio diritto di parlare a titolo individuale, senza essere ricondotto a un ordine già definito o a un gruppo predeterminato nella società. Nella lettura del gesuita francese gli eventi del Sessantotto costituiscono un sussulto vitale della parte più debole della società del tempo, che può affermare: «Esisto» e «Non sono un oggetto».
L’atto di “prendere la parola” è la traduzione plastica di un più fondamentale riconoscimento di sé e l’affermazione della propria dignità nel contesto sociale. È un evento capitale, il primo e cruciale passo per avviare un dialogo, per entrare in comunicazione, un passo necessario ma al contempo non basta. Se – come accaduto nel movimento sessantottino – la parola è solo presa, ma non pronunciata rivolgendosi a un interlocutore, se non riesce ad andare oltre la contestazione dello status quo e il rifiuto delle autorità per proporre in modo positivo un’alternativa, non è sufficiente. Se l’atto di prendere la parola non si accompagna alla disponibilità e alla volontà di mettersi a confronto, allora è condannato a restare sterile. Invece che alimentare un dialogo salutare e costruttivo, si finisce con il moltiplicare i monologhi, discorsi unilaterali che non cercano né desiderano un’interazione se non quella dell’eco identica di quanto già pronunciato. Dietro un parlare che è nel segno del monologo riconosciamo in chiaroscuro tutti i segni che contraddistinguono la matrice individualistica all’origine di tante ingiustizie e distorsioni del nostro tempo, che divide e isola gli esseri umani, alimenta la competizione, impoverisce il senso di appartenenza a una comunità.
Al contrario, una parola che si propone di incontrare l’altro, esponendo le proprie posizioni, idee, pensieri, bisogni, ha una forza vitale, che permane anche di fronte al rifiuto o all’indifferenza; rappresenta un contributo che comunque interpella le coscienze e apporta elementi fecondi alla vita insieme. Ancor più profonda e ricca è la dinamica che si innesca quando la parola pronunciata è ascoltata, accolta, passata al vaglio critico dell’interlocutore, eventualmente precisata nel confronto o addirittura smentita e contestata, purché ciò avvenga all’interno della cornice del dialogo. In questi casi siamo testimoni che iniziano nuovi percorsi di crescita e comunione.
La “lentezza poliedrica”
Due spunti provocatori da esplorare ci indicano delle piste per superare la chiusura individualistica dei monologhi e rilanciare una comunicazione autentica, in cui ogni singola parola ha un senso e gli interlocutori sono appieno implicati nello scambio.
La prima indicazione ci viene offerta dalla visione poliedrica della Evangelii gaudium, ripresa e tradotta in atto dalla Laudato si’. Il mondo complesso in cui viviamo necessita del confronto tra i diversi punti di vista, in modo particolare quello di coloro che sono ai margini o vittime di ingiustizia. C’è bisogno del contributo di tutti perché possano essere affrontate le crisi che in questo momento attanagliano l’umanità attraverso la ricerca di soluzioni innovative e coraggiose. Molte volte ascoltiamo l’elogio della pluralità, ma alle affermazioni non sempre seguono le azioni. La pluralità lodata e riconosciuta spesso è temuta e dimenticata. Invece che essere un modo per comprendere la varietà e la ricchezza presenti nel contesto pubblico – e quindi un modo per dare credito a tutti gli interlocutori e a quanto essi offrono – diviene un pretesto per continuare a portare innanzi discorsi unilaterali. Questo accade quando si ha della pluralità una visione frammentaria e non organica, nel segno di una tolleranza indifferente o magari infastidita per le posizioni altrui. Non è forse il momento di convertire il nostro linguaggio per parlare di parzialità, intesa come riconoscimento che nessuno dispone di una visione totale, ma tutti siamo portatori di un pezzo di conoscenza del reale e abbiamo bisogno degli altri, anche quelli più distanti da noi con i quali entrare in dialogo per poter assumere una prospettiva più ampia sulla realtà?
Un altro spunto si lega alle dinamiche del nostro tempo che sono nel segno dell’accelerazione, della tempestività, della comunicazione in tempo reale, ma anche dell’evaporazione rapida del senso delle parole pronunciate, della possibilità di passare da una posizione all’altra, diametralmente opposta, in modo repentino e nella disattenzione generale. La velocità impressa alle nostre attività e comunicazioni finisce per togliere “peso” a ciò che viviamo, svuota dall’interno il senso e la portata delle parole e dei gesti, “alleggerisce” in modo negativo perché impoverisce, perché «deterrenizza la vita umana», come evidenzia il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han (Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, Vita e Pensiero, Milano 2017, 29). Al posto di questa cavalcata incessante, che abolisce ogni sosta utile a prendere coscienza della profondità del presente,
la pista alternativa da seguire è quella di riscoprire la lentezza del ragionare, del confronto, del comunicare, del rispondere in modo meditato, dei tempi lunghi, che sono anche i tempi e i ritmi della natura, ben diversi da quelli imposti dall’attuale rapidación (LS n. 18). Passare dal flusso incessante della circolazione di idee e informazioni al lavoro personale e di gruppo di rielaborazione e riappropriazione richiede energie, dedizione e pazienza, è un processo lento per definizione, come lo sono i tempi delle stagioni, ma per questo capace di generare esiti creativi e fecondi.
Riconoscere la nostra limitatezza e parzialità, andare controcorrente vivendo la “lentezza poliedrica” può essere un vaccino per ridare slancio alla comunicazione innanzitutto nei contesti che ci sono più vicini, perché anche lì la parola necessita di essere guarita, per poi risalire agli ambiti più ampi della nostra vita sociale e politica, nella consapevolezza che si tratta di una partita lunga da giocare, dato che occorre invertire tendenze da tempo in atto, ma altresì coscienti che solo abitando lo spazio della comunicazione in modo inclusivo e aperto è possibile costruire un futuro comune

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